Ariodante Schiavoncini, 1922 - 2013, ex partigiano, figura di rilievo nella politica riminese, ha lasciato memorie della sua vita. In questo suo scritto si sofferma sul periodo bellico e le vicende che lo portarono a trasferirsi in Friuli.
All'inizio del novembre 1943 iniziarono i bombardamenti su Rimini, che si susseguirono poi in modo costante, generando morti e rovine. La popolazione terrorizzata cercò, in massa, rifugio nelle campagne o nei piccoli paesi dei dintorni. La mia famiglia lasciò il sobborgo marino della Barafonda e si sistemò provvisoriamente presso la casa di amici a Viserba. Trascorsi pochi mesi, ci spostammo in un piccolo appartamento, ricavato in un vecchio capannone in disuso già usato come deposito di ortaggi, alle spalle della piccola stazione di Torre Pedrera. Invece la mia fidanzata con la sua famiglia, dopo avere trascorso circa un mese in un casolare di Viserba Monte, sfollò in Friuli nel paese di Trivignano Udinese, dove vivevano i parenti.
A Rimini i bombardamenti erano sempre più numerosi e distruttivi e neppure le periferie erano risparmiate. La mia mamma lavorava all'ospedale di Rimini, in via Tonini, che ben presto, a causa degli incessanti bombardamenti, fu trasferito in un palazzo sulla collina delle Grazie. Il mio patrigno continuava a lavorare nelle officine della ferrovia. Ogni mattina si recavano al lavoro in bicicletta e tornavano alla sera. Io restavo a casa con i miei fratelli, due femmine e un maschio: Quirina, una ragazzina quattordicenne, Gabriella, una bimba di sei anni, e il maschietto di soli tre anni. Durante gli allarmi, trovandosi l'appartamento vicino alla linea ferroviaria, prendevo in braccio il piccolo Mauro e fuggivamo tutti insieme in mezzo ai campi.
Ogni giorno Quirina preparava da mangiare con le razioni che si potevano acquistare con la tessera annonaria e i viveri che io riuscivo a rimediare girando per i vari casolari di campagna. Col denaro al mercato nero si trovava tutto, ma ci volevano tanti soldi che noi non avevamo. Giravo le campagne a fare scambio merci. Avevo avuto in consegna dalla mia fidanzata, prima che partisse per il Friuli, due valigie contenenti aghi, spille per sarte, rocchetti di filo, elastici, bottoni automatici, tutti articoli utili per le donne di casa, ma allora quasi introvabili. Spiegai per lettera alla mia fidanzata la situazione e le chiesi il permesso di scambiare quelle merci con viveri.
Il mio girare per i casolari nelle ore pomeridiane era anche dovuto al fatto del pericolo che si correva restando in paese, in altre parole il rischio di incappare in qualche retata dei militari nazifascisti e di essere spediti a lavorare in Germania. Sulla città le incursioni aeree erano sempre più incessanti. Durante il devastante bombardamento del 28 dicembre 1943, la mia mamma, preoccupata per la sorte dei suoi figli, sfidò le bombe per tornare a casa percorrendo sette chilometri in bicicletta. Era la distanza che separava il colle delle Grazie, dove si trovava l'ospedale in cui lavorava, dal luogo in cui abitavamo. Nei primi mesi del 1944, stanco di quella vita, lasciai Rimini per trasferirmi in Friuli dove già si trovava la mia fidanzata.
A Rimini ero disoccupato e senza speranza di avere un lavoro, non potevo essere d'aiuto alla famiglia. Continuare a chiedere soldi alla mia mamma per comprare le sigarette, distribuite con la tessera, era una situazione umiliante che non potevo più accettare. Appreso che nella regione Friuli, denominata dai tedeschi Litorale Adriatico, a chi lavorava veniva rilasciato un documento di libera circolazione, decisi di partire. La mia fidanzata mi aveva scritto di essere pentita di non avere preso con sé la sua macchina per cucire perché avrebbe potuto guadagnare dei soldi esercitando il suo lavoro di sarta. Fu così che prima della partenza mi recai da sua sorella Rosina, l'unica che era rimasta a Rimini, alla quale aveva lasciato in consegna la macchina.
Intrapresi così il lungo e pericoloso viaggio verso il Friuli. Sistemai la macchina per cucire sulla bicicletta: i sostegni laterali di ghisa e il piano di legno della macchina li smontai e li impacchettai come una valigia, sistemandoli nel portapacchi posteriore; la testata, che era la parte più pesante, l'avevo inserita nel mio zaino militare assieme a qualche capo di vestiario, mentre gli attrezzi da meccanico, che avrebbero potuto servirmi per un eventuale lavoro, li introdussi in una robusta valigia di legno. Nel tascapane avevo messo delle pagnotte di pane, del formaggio e una borraccia d'acqua. In tasca avevo la favolosa somma di cinquanta lire, rimediata a fatica.
Ariodante Schiavoncini