TEMPO CHE FU: MIO PADRE

Dopo l'8 settembre 1943 e la dissoluzione delle forze armate italiane in Jugoslavia, Saturnino Sormani, capostazione presso la stazione di Budseny (Serbia), in seguito alle vicende belliche che ne conseguirono, abbandonò il servizio e con un amico, dopo varie traversie e un lungo peregrinare, riuscì a rientrare a Rimini e a ricongiungersi con la famiglia, allora sfollata a Pietracuta.

Con la presenza di papà le cose sembrarono andare meglio, ma purtroppo era senza lavoro e mantenere una famiglia di sette persone non era cosa semplice. Si recò quanto prima alla Ferrovia statale per richiedere il suo posto da Capostazione, ma non ci fu nulla da fare, neppure per un incarico più modesto. Svolgeva qualche piccolo lavoro e si viveva in molte ristrettezze. In qualche modo si tirò avanti e, passato il fronte, tornammo a Rimini e ci stabilimmo in via Parisano. Eravamo vicini ai Salesiani, così i miei fratelli andavano all'oratorio, mentre le mie sorelle potevano frequentare le superiori (Maria Luisa frequentava l'Istituto Tecnico per Ragionieri e Anna Maria le Magistrali dalle Maestre Pie) e io andavo all'asilo, poi alle Elementari dalle Suore di Maria Ausiliatrice.

Mentre le mie sorelle maggiori recitavano al teatrino delle Suore, a qualche recita fecero partecipare anche me che avevo solo quattro anni. Purtroppo nel febbraio 1950 la casa dove abitavamo fu messa in vendita (mio padre si oppose a ciò, ma non fu ascoltato) e noi dovemmo andare in affitto in centro a Rimini, in via Venerucci, e io continuai a frequentare la seconda elementare sempre dalle Suore, ma questa volta presso le Maestre Pie. Durante la mia frequentazione alle scuole elementari, vista la mia predisposizione per la recitazione e il canto, partecipai a varie recite che si rappresentavano nella palestra dell'Istituto adibita a Teatro. Una volta ricordo che recitai e cantai nelle vesti di protagonista nonostante avessi la febbre piuttosto alta e mia madre voleva portarmi a casa e mettermi a letto, ma prima io volli terminare la recita.

La vita andava avanti e papà, ringraziando il cielo, poté essere riassunto alle Ferrovie e raggiunse presto l'incarico di Capo Stazione di prima classe. Un pomeriggio, di ritorno in treno da Pescara dove eravamo andati a trovare mia sorella Maria Luisa che vi si era trasferita per lavoro, eravamo fermi al primo binario di Ancona. Mio padre e io eravamo affacciati al finestrino in attesa di ripartire e mio padre salutava affabilmente i colleghi che passavano sul marciapiede. Ad un tratto, presentandomi, aggiunse compiaciuto: È la più bella delle mie figlie!. Io, intimidita (avevo 16 o 17 anni), mi ritirai immediatamente dal finestrino convinta in cuor mio che, se al mio posto ci fosse stata una delle mie tre sorelle, avrebbe detto la stessa cosa: non ho mai avuto il coraggio di appurarlo, né per me aveva molta importanza, sapevo che mi voleva bene e questo bastava. Era inoltre amico di tutti ed era spesso burlone e tutti lo apprezzavano.

Un giorno, a metà febbraio 1962, con mio fratello Giancarlo che guidava la modesta giardinetta della Ster (piccolo studio tecnico per l'edilizia) accompagnammo papà, già molto malato, all'ospedale di Rimini in via Tonini, dove lo ricoverarono in un grande camerone. Purtroppo il ricovero non gli giovò, tanto che un po' di giorni dopo lo trasferirono in una stanza a due letti con un altro malato grave che di lì a poco tempo morì.

Anche papà purtroppo peggiorò e una mattina ricevemmo una telefonata dall'ospedale dove ci precipitammo: mia madre, i miei fratelli, io e mia sorella minore Paola. Nella stanza dove c'era mio padre fecero entrare solo mia madre, che poté raccogliere i suoi ultimi respiri. A metà mattinata un'infermiera venne ad avvisarci che papà ci aveva lasciato e che potevamo entrare nella sua stanza dove mia madre ci attendeva in un mare di lacrime. Ci avvicinammo a lui e lo baciammo.

Non so come, tra le lacrime inarrestabili, mi vennero in mente le ultime parole che mi aveva detto circa una settimana prima quando, uscendo dallo studio dove lavoravo, ero passata a salutarlo. Ricordati dei canarini. Amava moltissimo infatti gli animali e la natura. Mi sovviene anche un altro fatto: avrò avuto circa 17 anni quando un giorno papà mi chiamò e disse che aveva bisogno di me: sarei dovuta andare a Pesaro a prendere un cagnolino che il canile municipale non poteva tenere per esubero e che quindi poteva essere adottato da una famiglia. Mi offersi subito di andare a prenderlo perché amavo gli animali, come lui, e l'idea di poter avere un cagnolino mi elettrizzava.

L'indomani presi il treno, con in tasca l'indirizzo del canile di Pesaro, e il buono bagaglio per Bibi, così lo avremmo chiamato. Tutto andò come previsto e il viaggio di ritorno fu assai lieto: avevo già un accompagnatore fidato seduto nel posto accanto al mio. Rimase per parecchi anni in casa nostra anche se spesso, trovando il cancello aperto, se ne usciva in strada dove non poteva soffrire i ciclisti e li rincorreva abbaiando furiosamente.

Una sera d'inverno, era già buio da tempo, di Bibi non c'era traccia. Aprendo più tardi il portone d'ingresso per andare a cercarlo, lo vedemmo arrancare faticosamente per raggiungere il nostro appartamento al primo piano. Giunto in casa, si adagiò su un fianco sotto il tavolo di cucina e poco dopo spirò. Era stato colpito, probabilmente da un ciclista arrabbiato, al fianco sinistro dell'addome in modo così violento da provocargli una ferita letale. Il suo amore per noi gli aveva dato la forza per arrivare fino a casa per poi lasciarci per sempre.
Povero piccolo Bibi.

Maria Grazia Sormani