PANIFICAZIONE DI UNA VOLTA

Virginio Cupioli (Tonino), 1926 - 2023, già ferroviere con la qualifica di Capo Stazione Superiore, ha lasciato memorie scritte sulla sua gioventù, soffermandosi in questo su una diffusa usanza alimentare: preparare il pane in casa.

I musell, erano così chiamati i popolani che preparavano il pane in casa o nel panificio pubblico, dove lo facevano poi cuocere. Normalmente due erano le pezzature, di circa mille grammi, dette coppia e drugla che rispondevano alla loro forma: rispettivamente a croce e oblunga a fuso. Prima della seconda guerra mondiale (1940), e anche subito dopo, quando si passava davanti a un forno a legna si avvertiva una piacevole sensazione olfattiva. Si percepiva un aroma misto di odori derivato dalla cottura del pane fatto con farine di grano, non vagliate, perciò fra l'altro contenenti: orzo, veccia, segale, loglio, avena, miglio e altri cereali che crescevano spontanei tra le piante di grano e, a mio parere, molto nutrienti per la varietà delle sostanze commestibili contenute, benefiche per il corpo umano.

Allora i forni, dopo la loro attività produttiva, erano a disposizione della popolazione che, secondo l'usanza, preparava il pane personale in privato a casa e lo portava poi a cuocere, vi era chi invece portava al panificio la propria farina e lo preparava sul posto comprando, se necessari, gli ingredienti mancanti: lievito, sale e altro direttamente dal fornaio. I musell al panificio arrivavano con calessi, carriole, biciclette, birocci a mano, con l'impasto o la farina in cesti di vinco coperti con tovaglie bianche. Quest'affluenza ai forni si accentuava durante certi periodi dell'anno in coincidenza di lavori collettivi in campagna: mietitura, vendemmia, raccolti agricoli; quando le adzore erano impegnate a coadiuvare i loro congiunti nei lavori e non potevano giornalmente approntare, come avveniva di consueto, la piada.

Una particolare atmosfera allegra ed euforica si creava nel panificio per il vociare dei musell con la loro loquacità. Qualche massaia era accompagnata dai bambini, questo accadeva specialmente durante la settimana precedente la festività Pasquale, e quando le famiglie approntavano la rituale ciambella da mangiare poi con l'uovo benedetto. Per evitare scambi al momento del ritiro gli impasti erano marcati con appositi stampi forniti dal fornaio, il quale provvedeva alla cottura per un compenso adeguato in base al peso del pane o ciambella cotta. Di regola il pane prodotto privatamente durava una quindicina di giorni ed era conservato nella madia per rallentarne l'essiccamento. Era molto gradito perché costituiva un cambio alla pur appetitosa piada.

Virginio Cupioli