TEMPO CHE FU: MIO PADRE

Il primo marzo del 1962, nella mattinata, moriva Saturnino Sormani, capostazione di prima classe delle Ferrovie dello Stato in pensione da due anni. Si era goduto poco la quiescenza: solo due anni e quasi sempre ammalato di asma bronchiale ed enfisema polmonare contratte nei turni di notte quando per dare il via ai treni doveva uscire dall'ufficio caldo e lasciarsi investire dal vento gelido che soffiava quasi sempre nei lunghi inverni: malattie che all'epoca poco si potevano curare.

Io non avevo ancora vent'anni e la perdita di papà mi toccò profondamente. Non che di sei figli fossi la sua prediletta, ma mi dimostrava il suo affetto con mille particolari che mi riempivano il cuore di rimpianto. Quante volte mi difendeva dai rimbrotti di mia madre che spesso era molto severa nei miei confronti dato forse il mio carattere estroverso e la mia passione per tante cose nella mia vita da adolescente.

Ciò che mi è più rimasto impresso nella vita di papà, oltre alla sua nascita avvolta nella nebbia più totale a Civitanova Marche nel 1898, l'aver il cognome della madre, l'aver iniziato a lavorare nelle Ferrovie a soli 18 anni, l'averci raccontato di un nonno che lo portava in vacanza, in estate, a Viserba, dove possedeva una bella villa sulla spiaggia, soprattutto la sua rocambolesca avventura per tornare a Rimini dalla Slovenia. Era stato mandato infatti come capostazione a Lubiana prima, poi a Bubnesy (nei pressi di Belgrado).

A Lubiana mia madre, nel settembre 1941, era andata a trovarlo con le mie sorelle e i miei due fratelli maggiori e vi si era trattenuta un mese, in una bella villetta un po' fuori dal centro e vicina a un grande parco di nome Tivoli dove li portava a giocare sotto il suo sguardo vigile.

L'8 settembre 1943 l'Italia firma l'armistizio con gli Alleati: i tedeschi da amici diventano all'improvviso nemici e iniziano a dare la caccia ai partigiani mentre l'esercito italiano e i lavoratori all'estero sono sbandati. Di nostro padre non ci furono più notizie, in quel caos si pensava fosse morto. Mia madre, con cinque bambini (intanto ero nata io nel maggio del 1942), era sfollata a Pietracuta, nel primo entroterra riminese. A Rimini era diventato pericoloso vivere sotto i massicci bombardamenti alleati che ci facevano correre dalla nostra abitazione, di giorno e di notte, io piccola in braccio a mia madre o a una sorella maggiore (allora abitavamo in via Bertola in pieno centro cittadino), verso i rifugi.

A Pietracuta abitavamo in una modesta casa situata vicino ai binari della ferrovia: la Ferrovia Padana che collegava Rimini a Novafeltria. Una mattina della metà di ottobre del 1943, le mie sorelle maggiori avvistarono una persona, dall'aspetto trasandato e il volto provato, camminava lungo la ferrovia verso la nostra casa. A mano a mano che si avvicinava parve loro di conoscerlo poi, d'un tratto, irruppe dalle loro bocche un grido. È papà, è papà. Gli corsero incontro con gli occhi pieni di lacrime, lo abbracciarono e baciarono felici di averlo di nuovo a casa dove corsero a dare notizia agli altri.

La mamma non c'era: forse era andata a Rimini o a San Leo, dove erano stati trasferiti alcuni uffici comunali, e quando ritornò la gioia fu completa: finalmente la famiglia era riunita. Papà raccontò di come fosse fuggito dalla Slovenia, in quel caotico fuggi fuggi generale, insieme a un amico, con le sole cose che avevano addosso, e come ideò di indossare la sua giacca di pelle nera al rovescio per non correre il rischio che qualcuno volesse rubargliela. La giacca lo salvò dal freddo, ma poteva essere anche la sua condanna se si fossero accorti del cambio.

Papà fece, così, un lungo viaggio che durò oltre un mese, mangiando quello che riusciva a trovare e dormendo nei fienili, usando soprattutto le gambe e, in qualche tratto, i carri merci. Una volta giunti a Rimini i due fuggiaschi si separarono: papà prese la ferrovia Padana per giungere a Pietracuta, mentre l'amico si avviò verso casa sua.

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Maria Grazia Sormani