I BURLONI

In questo suo scritto Franco Fontemaggi, classe 1930, che trascorse gli anni giovanili, prima di emigrare in Svizzera, nel sobborgo cittadino della Castellaccia, rievoca ricordi della sua gioventù nel dopoguerra, focalizzando in questo suo scritto l'attenzione su un personaggio, detto il Nin, iroso, un po' macchietta, che in quel luogo risiedeva.

Il Nin, nella Castellaccia a pochi passi da casa, aveva aperto un atelier dove preparava cartelloni pubblicitari. Un giorno era intento ad affiggere, con l'ausilio di una alta scala, un cartellone per un ballo da Pagnoc, dove funzionava un bar con ottimi panini, quando uno dei soliti burloni, che annoverava allora la città, gli gridò ad alta voce: com té scret panini sa do enne? Ci proprie un ignurent. Allora il Nin con voce dimessa rispose: Osta, le vera, cui vò sna una enne e si affrettò a coprire con un pezzo di carta una enne, ma subito un altro (d'intesa con il primo naturalmente), gli sibilò: guarda che panini si scrive con due e..., ma non ebbe il tempo di finire che il Nin gli lanciò il barattolo della colla accompagnato da un sono: mo va in te casen.

Il Nin si arrabbiava facilmente, alzava la voce e tutto finiva lì, anzi abbozzava un sorrisetto, si scusava e aggiungeva: però voi siete dei bei rompipalle. Una mattina di buon ora bussammo alla sua porta per avere qualche pennello e un po' di vernice per fare delle scritte agli stand della prima festa de l'Unità: lo sentimmo all'interno rovesciare qualcosa, imprecare e maledire chi lo aveva svegliato. Quando la porta si aprì, la furia del Nin si era spenta, si stropicciò gli occhi e disse: oh! Burdel!, a si vuieltre?. Si scusò se aveva gridato e calmo ci ricordò che lui di notte lavorava (faceva il mago delle luci all'Embassy) e se non dormiva un po' alla mattina, quando dormiva? Ma subito riesplose e inveì: se avni ancora, avamaz, avamaz ma tot, e giù a rovesciare una sedia. Quella volta ci salutò col broncio sul viso, ma non era che una delle tante maschere che il suo volto era capace di esprimere come un grande attore.

Era un misto di burbero e di bonario quando esclamava, per giudicare qualcuno, osctia ad pataca. E anche quella volta che Gambela arrivò al bar trafelato, tutto sudato, e raccontò della faticaccia del diavolo: in quattro, di notte, avevano sollevato sulla spiaggia un capanno per accostare la sua porta a quella di un altro. E al solo pensare alla faccia che avrebbero fatto i due proprietari all'indomani, nell'impossibilità di entrare, si erano sbellicati dal ridere. Però, adesso, Gambela aveva fitte di dolore alla schiena. E il Nin, come ci si poteva aspettare, se ne uscì con un: osctia ad pataca.

Franco Fontemaggi