LA GUERRA È FINITA

La riminese Saulla Bacchini, giornalista, 1920 - 2015, scrittrice ha lasciato memorie che gentilmente la figlia Gabriella ci ha consegnato. In questo racconto descrive come lei, rifugiata in una baita in montagna, nel 1945, nei pressi del confine con la Svizzera, trascorse in quel contesto con il marito, il cognato, la sorella e la rispettiva prole, le ultime fasi del conflitto.

I contatti con i partigiani divennero sempre più frequenti, dovevamo informarli di ogni movimento sospetto dei repubblichini, alcuni dei quali cercavano già di rifugiarsi in Svizzera. Ci avevano dotato di una radio da campo, da usare solo se eravamo impossibilitati a comunicare a voce o con i famosi biglietti colorati.

La guerra volgeva alla fine. Ai primi di aprile 1945 gli alleati passarono all'offensiva, sfondarono la Linea Gotica irrompendo nella pianura Padana. Il 21 entrarono a Bologna, il 24 scoppiava l'insurrezione a Genova, il 25 i partigiani liberavano Milano. La gioia per la nostra libertà fu immensa, non dovevamo più nasconderci, potevamo chiamarci con il nostro nome, eravamo liberi di andare e stare dove desideravamo. Ci prendemmo per mano e saliti su un picco, urlammo al vento Io mi chiamo Salomone Samuele Dino Dello Strologo e sono un ebreo, io mi chiamo Saulla e sono la moglie di un ebreo, io mi chiamo Adamo Semprini, detto Mino e sono scappato per non stare con i tedeschi e io sono Elmore, sua moglie. E ora siamo liberi con i nostri figli.

Volevamo tornare subito a casa, ma il comando ci impose di restare sul posto per ostacolare la fuga dei fascisti. Non ci sentivamo di dare la caccia all'uomo, sapevamo quali erano le paure e le sofferenze dei perseguitati. Spesso fingevamo di rincorrerli, poi facevamo loro un cenno di proseguire, volgendo le spalle e fumando una sigaretta. Quattro notti dopo, la finestrella della baita venne colpita da una fitta sassaiola, al grido Siete anche voi fascisti, li lasciate scappare.

Erano alcuni montanari che volevano consegnare al comando i fascisti in fuga nella speranza di un lauto compenso. Intervenne il parroco della zona, don Luigi, il quale spiegò alle sue pecorelle che non vi era alcun compenso. Il due maggio telefonò un partigiano da Porlezza: C'è qui un bel signore, dice di essere tuo padre. Dimmi il suo nome - Gualtiero Bacchini gridai emozionata. Tutto a posto, allora. Lo accompagno fino a San Bartolomeo, venite a prenderlo.

Mi precipitai su e giù come una cerbiatta. Dino e Mino erano di guardia a un valico e Elmore restò con i bambini. Dall'alto di un dirupo vidi mio padre con una sporta in una mano, dalla quale facevano capolino filoni di pane e salami, e nell'altra un fiasco di vino. Piangendo e ridendo ci abbracciammo, lo presi per mano e lo condussi nella baita. Elmore stava preparando le tagliatelle, Dino e Mino, rincasati dopo il cambio, accendevano il fuoco. Per festeggiare chiamammo anche don Luigi, nostro protettore e compagno di interminabili chiacchierate.

La cena fu favolosa: tagliatelle al sugo di salame, salame a fette a volontà, vino anche troppo: cantammo tutti: Va pensiero sull'ali dorate, poi Dino, che aveva una discreta voce, cantò in ebraico la preghiera in onore dei morti. Lo ascoltammo, avevamo gli occhi lucidi, anche se non comprendevamo le parole. Don Luigi recitò l'Ave Maria, e perfino mio padre quasi ateo mormorò un amen.

Purtroppo le atrocità non ebbero termine con la fine della guerra. L'umana pietà sembrava, in alcuni casi, morta per sempre. Vedi lo scempio di piazzale Loreto e le vendette personali di molti partigiani improvvisati, nonché le fucilazioni eseguite da misteriosi tribunali. Noi non siamo stati partigiani a tutto tondo, li abbiamo aiutati in determinate circostanze. Ma con quei pochi con i quali abbiamo avuto contatti, si era instaurata reciproca stima e solidarietà.

La Redazione