Il socio Benito Colonna (Toni), classe 1937, pensionato FS, nato e vissuto nella frazione cittadina di Rivabella, in questo suo breve racconto ricorda anni della sua gioventù trascorsi in tale località.
Dalla casa in cui abitavo potevo vedere il mare. Fino al 1955 quasi tutte le case che costituivano l'agglomerato di Rivabella nord, erano a un solo piano con annesso orticello, a eccezione della villa Giulia di Finet, poi del professore Manduchi, costruita su due piani. L'altra villa, sempre su due piani, a nord - ovest, sulla strada litoranea, era di Morelli Antonio, istruttore pilota; più oltre si stendeva la campagna fino alle prime case di Viserba. I campi coltivati a ortaggi erano divisi uno dall'altro da piccoli fossi d'irrigazione dalla limpida acqua sorgiva. Qui flora e fauna acquatiche proliferavano in un ambiente ideale.
Nella bella stagione la notte era rallegrata da un incessante gracidare di rane alle quali facevano coro i grilli. Sovente, quando era tempo di passo, si udiva il richiamo degli uccelli migratori come tordi, anatre, aironi. L'usignolo col suo melanconico richiamo, cercando di sedurre la possibile compagna, cantava nell'oscurità della notte. Durante la primavera, quando il sole cominciava a scaldare, nei fossati, ricchi di piccoli gamberi bianchi, pesciolini, girini e tanto altro, si potevano osservare tartarughe autoctone crogiolarsi ai benefici raggi del sole, a maggio si potevano vedere le lucciole nei campi di grano e udire il canto di mille grilli.
Era un paradiso per gli animali, ma lo era anche per noi ragazzi di campagna: mare pulito a portata di mano, frutti raccolti direttamente dall'albero, andare alla ricerca di nidi, distese di verde grano immaturo, che sotto l'azione del vento pareva un mare in movimento dove le rondini lo sfioravano sfrecciando veloci dirette ai loro nidi. La nostra era una vita un po' selvaggia, ma libera e felice. E lo studio? Se si ha di che distrarsi con soddisfazione, la mente riesce bene anche nello studio.
Ogni tanto, prima dell'imbrunire, accompagnavo mio padre a piazzare nel fossato (dla turcheta) il bertuello (cugol). Messo in opera l'attrezzo dove l'acqua era più profonda, con l'apertura verso il senso della corrente, corredavamo la parte terminale del sacco con un piccolo contenitore di rete contenente cristalli di verderame; questi, a contatto dell'acqua, iniziavano a sciogliersi provocando un fastidioso bruciore agli occhi e alle branchie del pesce che, risalendo la corrente per evitare il danno, finiva inevitabilmente nella sacca della rete. Quando, circa due ore dopo ritornavamo a recuperare il bertuello il pescato era sempre abbondante, in prevalenza c'erano anguille, ma non mancavano neppure tinche e cefali.
Benito Colonna (Toni)