La riminese Saulla Bacchini, giornalista, scrittrice 1920 - 2015 ha lasciato delle memorie che gentilmente la figlia Gabriella ci ha consegnato. La signora Saulla nel 1938 aveva sposato un uomo, di qualche anno più anziano di lei, di religione ebraica. Quest'ultimo aspetto li aveva prima messi in serie difficoltà per le leggi razziali, poi in serio pericolo con l'arrivo in Italia, dopo l'8 settembre 1943, delle armate tedesche. Tanto che frettolosamente decisero di vendere (anzi svendere) la piccola fattoria che solo qualche anno prima avevano acquistato a Ospedaletto di Coriano.
Col modesto gruzzolo ricavato, la famigliola (madre, padre e la bambina di pochi anni) con mezzi di fortuna, raggiunse Ponte Lambro dove, in una frazione di montagna, possedeva una baita isolata. In questa dimora da qualche mese aveva già trovato rifugio la sorella di lei con il marito e il loro bambino di tre anni. Il marito, militare, aveva disertato dopo l'armistizio. Lì, insieme, trascorsero un lungo periodo di apprensione e di vita stentata, fino alla fine della guerra.
L'antivigilia di Natale del 1944 dico a mio marito e a mio cognato: Domani vado a Porlezza. Voglio comperare qualcosa per i bambini. Mi guardano come avessi detto che vado sulla luna, agitando la mano davanti alla fronte a chiedermi se sono matta. Sicuro, vado a Porlezza. Chissà che non possa trovare un po' di frutta e verdura. Alla parola verdura, mia sorella alza la testa di scatto, come un cavallo che abbia annusato la biada dopo due giorni di digiuno. Verdura, lassù in quella sperduta baita vicino al confine svizzero, non se ne mangiava da mesi.
Così la mattina dopo, appena albeggia, in compagnia di cinque montanare che vanno a Porlezza per vendere uova, mi metto in cammino. Mio marito mi stringe bene le stringhe degli scarponi, mio cognato mi avvolge la sciarpa attorno al collo, mia sorella mi ripete verdura mentre la mia bambina mi chiede se le porterò un dolce. Fa un freddo infernale, l'aria sembra che abbia tanti spilli, e la neve è così ghiacciata che a malapena mi reggo in piedi. Ma sono decisa ad arrivare a Porlezza, e riempire lo zaino di provviste. Mio marito mi dice di stare attenta ai tedeschi e ai repubblichini e se mi fermano di non dire il mio nome.
Gli faccio cenno che ho capito. Ho capito da molto che non devo dire come mi chiamo veramente e da dove vengo. Sempre per quella paura che ci portino nei campi di eliminazione in Germania, specialmente per la mia bambina appartenente a una razza da eliminare. Sono cinque ore di cammino per arrivare a Porlezza. Fatico a stare dietro alle mie compagne che, cariche di gerle, balzano giù per le mulattiere come tante cerbiatte. Ma stringo i denti, ansimo e non dico nulla. Una fame atroce comincia ad afferrarmi lo stomaco e chiedo quando si mangia. Tra poco arriviamo al forno.
Tra il freddo e la fame penso al forno come a un'oasi e me lo immagino luogo di ristoro ben riscaldato dal camino con tante panche intorno. Il forno invece è un buco sudicio e tetro dove le mie compagne comprano dei filoncini di un indescrivibile colore. Di pane non ne vedo da tanto tempo. Non bado al colore, al colore delle mani che me lo porgono e chiedo: Ora si va in trattoria?, mi guardano come se avessi detto, ora si va al palazzo del re. Poi si siedono su un muricciolo e cominciano ad addentare il filoncino. Ho capito che non c'è trattoria, non c'è fuoco, non c'è nulla. Addento anch'io quel coso nero mentre lo stomaco si raggrinza al ricevere i bocconcini mal masticati.
Poco dopo siamo a Porlezza. C'è il mercato, ma roba da mangiare niente. In un negozio fuori mano trovo un chilo di mele, belle, le compro pensando alla gioia dei bambini, e chiedo timidamente se c'è verdura. Il padrone mi addita un cesto, guardo: cipolle grosse, bianche. Verdura!, ripeto. Allora tira fuori da sotto il banco un sedano bianchissimo. Chiudo gli occhi come colpita da una troppo vivida luce. No, non è possibile. Un sedano così grande, bello, un sedano di cui quasi non ricordo il sapore, un sedano da mangiare, non finto. Lo afferro e chiedo il prezzo. Duecento lire.
Una enormità, ma lo prendo, lo ripongo con cura dentro lo zaino e come se portassi sulle spalle il tesoro del Tibet, mi rimetto in cammino. Ora salire è molto faticoso. Ho fame, ma il mio animo e il mio stomaco sono in festa per il sedano. Faccio conti su conti. Una costa per la minestra, una costa per ciascuno per Natale, una costa ancora per la minestra e così via. Quel sedano diventa eterno per me. Arrivo alla baita che è notte, i miei mi aspettano con ansia.
Dallo zaino traggo le meraviglie. Prima le mele, poi due giocattoli, le cipolle e infine il sedano. Lo guardo troneggiante nel mezzo della tavola, bianco e turgido. Mia sorella lo tocca con la punta delle dita, e tutti religiosamente ne mangiano un pezzetto. Ora lo metto fuori della finestra, così si mantiene di più. La mattina dopo, mentre sediamo attorno alla polenta fumante, penso alla minestra col sedano, quando a un tratto la mia bambina ride, la guardo e lei mi indica la finestra. Dio del cielo... getto un grido. Una capra sta mangiando il mio sedano! Mio cognato corre fuori, ma la capra, seguita dalle altre sue compagne, balza su per i monti, masticando.
Ci guardiamo in faccia come se fosse passata vicino a noi una improvvisa bufera: a capo chino, le braccia penzoloni rientro in casa, mi siedo. Il mio sedano sul quale ho sognato pasti pantagruelici, è finito nello stomaco di una capra. A un tratto, io che non ho pianto quando mio marito è andato via, io che non ho pianto dinanzi ai corpi morti di miei parenti, io che non ho pianto quando tutti in casa piangevano pensando a mia figlia e al pericolo che la minacciava, appoggio le braccia sul tavolo, il capo sulle braccia e scoppio in singhiozzi.
La fine del sedano mi sembra la fine che faremo noi, ridotti a vivere come animali, braccati senza via d'uscita, e mi accorgo solo ora che dal mondo sono scomparse la pietà e la bontà.
Saulla Bacchini