In questo suo scritto l'autore Franco Fontemaggi, classe 1930, che trascorse la sua giovinezza nel sobborgo cittadino della Castellaccia, rievoca alcuni ricordi di quel tempo.
Con la famiglia, fino a sette anni, abitammo in via Angherà da dove poi traslocammo per risparmiare sulla pigione in via dell'Ospedale, perché il nuovo appartamento aveva una stanza in meno, ma anche così i soldi non bastavano mai. Ricordo che una volta ci piombarono il contatore, ci tolsero l'acqua perché non avevamo pagato la bolletta. Allora coi fiaschi o con l'orcio andavamo nelle case vicine a mendicare quell'elemento vitale, che cadeva si dal cielo, ma non a tutti era dato di avere.
In quelle case della mia Castellaccia vivevamo una vita grama, fatta di stenti che noi bambini cercavamo di lenire restando fino a notte sulla strada, a giocare la lippa: Vot e cirol? ... Venga!. Eravamo noi i padroni della strada birichin e luzos, ma bel com di anzul, andavano dicendo di noi le nostre madri. E poi c'era la fame che mi attanagliava lo stomaco. Allora mia madre, per distrarmi, mi prendeva a cavalcioni sulle ginocchia ed era sdaza e minaza, oppure mi raccontava le sue filastrocche, e una di queste diceva: Il pollice dice io ho fame; l'indice dice: non ce n'è; il medio, come faremo? l'anulare dice ruberemo; e il mignolo: gnich gnich, chi ruba impich.
Nella cucinetta, dove avevamo appena il posto per sederci al tavolo, c'era un focolare con i fornelli per il carbone, che una volta acceso ricoprivamo con della cenere per mantenere il calore e far cuocere lentamente le vivande. Quella cucina era tutto il nostro mondo, specialmente d'inverno, poiché era l'unica stanza riscaldata dai fornelli o dal fuoco fatto coi trucioli che i falegnami della zona mi lasciavano prendere fin sotto le pialle elettriche. Questo fuoco, il treppiedi e il testo ci servivano per cuocere le piadine e tutto assumeva l'aria di una festa.
Qui, però, ho passato ore penose per i compiti di scuola, che svolgevo con malavoglia; i cinque anni delle elementari (che passai solo con la menzione sufficiente) sono legati al ricordo di tre maestri: primo la maestra Campedelli, che mi prestò il libro Cuore da leggere a casa; così per me Campedelli divenne sinonimo di Cuore. Il secondo maestro lo ricordo per come si presentò entrando in classe il primo giorno di scuola: andò alla lavagna, scrisse il proprio cognome, che contemporaneamente sillabò con la sua voce gracchia e nasale: Io mi chia-mo Sil-vagni. Il terzo maestro fu Succi che, non credendo troppo nel fascio, traduceva a modo suo l'ordine che Bacchini, sempre impettito, portava di classe in classe: Nella ricorrenza del ... domani tutti in divisa!. Succi, non appena Bacchini aveva girato i tacchi, traduceva: Domani chi può venga in divisa.
Franco Fontemaggi