VICISSITUDINI

Ariodante Schiavoncini, 1922 - 2013, ex partigiano, figura di rilievo della politica riminese, ha lasciato memorie della sua vita. In questo scritto si sofferma su un periodo della sua fanciullezza, vissuta nel rione Clodio con sua madre vedova e il convivente di lei.

Nella casa di via Clodia, nell'autunno del 1928, con me e la mia mamma [ venuto ad abitare un uomo di nome Nicola. Non l'avevo mai visto prima, era un ferroviere separato legalmente dalla moglie. Mia madre diceva che lo dovevo considerarlo come il mio secondo padre, ma mai ci riuscii. Sinceramente devo riconoscere che è stato un uomo buono e mite, tutto famiglia, casa e lavoro.

Prima della sua venuta dormivo nel letto con la mia mamma, al suo arrivo sono stato messo a dormire da solo, in un letto pieghevole ai piedi del letto grande. Forse anche questo aspetto ha contribuito alla mia contrarietà nei suoi riguardi. Lo consideravo un intruso, da lui non accettavo consigli né tantomeno rimproveri. Ero un bambino discolo e ribelle. Col tempo le cose sono migliorate, ma non sono mai stato capace di chiamarlo babbo.

Abitavamo ancora in via Clodia nell'anno del nevone, il 1929, un inverno terribile con metri di neve che hanno messo in ginocchio la città, con grosse difficoltà per i riminesi, specialmente i più poveri e quei lavoratori rimasti senza lavoro a causa della gran nevicata. Le autorità cittadine e militari, in quei giorni freddi, si prodigarono per alleviare le difficoltà dei più bisognosi. La mensa dei poveri ha aumentato la distribuzione dei pasti, l'Esercito ha distribuito coperte al dormitorio pubblico e alle famiglie con bambini piccoli. Alle famiglie più bisognose sono stati regalati viveri, legna e indumenti anche da parte dei benestanti riminesi, in una solidarietà che ha coinvolto l'intera comunità.

Ancora una volta la generosità dei briganti Romagnoli, come li aveva giudicati il Papato, non ha deluso. Il mio patrigno, dipendente delle ferrovie, aveva la possibilità di acquistare a rate dall'ente ferroviario il carbone e vecchie traversine di legno che bruciavamo per scaldarci in una piccola stufa di ghisa, posta in cucina. Spesso a causa della scadente qualità del combustibile, i tubi di scarico s'intasavano e perdevano fumo. Bisognava pulirli subito, per evitare che i muri e i pochi mobili diventassero neri

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Per diverse sere, in quel gelido inverno, dei vicini sono venuti a casa nostra a fare la veglia. Fra una discussione sul difficile momento, un bicchiere di vino caldo, e lavori ai ferri con qualche gomitolo di lana o cotone, si passava la serata. In quei duri mesi tutte le mattine, esclusa la domenica che la mia mamma e il patrigno erano a casa, giocavo sulla strada in mezzo a cumuli di neve. Portavo i calzoni corti, e le calze arrivavano alle ginocchia: le parti del corpo che rimanevano scoperte erano sempre arrossate e fredde. Un giaccone di panno mi scaldava il corpo. I guanti di lana si bagnavano giocando con la neve, e diventavano inservibili. Le mani erano sempre color viola per il freddo, gonfie e screpolate per i geloni.

Per riscaldarle le mettevo sotto il getto continuo della fontanella pubblica di via Clodia. Alla base della fontana l'acqua formava una lastra di ghiaccio, ma era tanto il freddo che quando sgorgava sembrava tiepida. Per i piedi andava meglio, avevo scarponcini con il fondo di legno e la tomaia di cuoio. Anche se le calze non erano di lana, ma di cotone fatte in casa coi ferri, avevo i piedi sempre caldi.

Ariodante Schiavoncini