MOTI SOCIALI IN ROMAGNA

Oreste Cavallari, 1916 -1980, avvocato, decorato al valor militare, invalido di guerra, repubblicano, è stato autore di una ricerca storica sugli anni che precedettero l'ascesa del fascismo nella nostra città; qui si riporta un suo scritto relativo alla "Settimana Rossa"

Dal 7 al 13 giugno del 1914 l'Italia fu in subbuglio - Pietro Nenni, Errico Malatesta e Benito Mussolini, il repubblicano, l'anarchico e il socialista volevano romperla definitivamente con l'Italia di Giolitti e di Salandra, un'Italia che disprezzavano dal profondo del cuore. I tre si erano visti a Rimini ove nell'albergo Cavour in piazza avevano concertato.

E domenica 7 giugno, in occasione della festa dello Statuto, ad Ancona ci fu la prima fiammata. Proibita una manifestazione antimilitarista al mattino, nel pomeriggio ci fu un comizio di protesta. Parlano Nenni e Errico Malatesta. I due si danno a sciabolare contro tutto e tutti. Se la prendono soprattutto contro i processi per diserzione e contro le compagnie di disciplina. La folla è eccitata. I carabinieri la stringono. Parte un colpo, un altro e, alla fine, si contano i morti: tre.

Immediatamente viene proclamato lo sciopero generale in tutta Italia, ma attacca solo in Romagna perché altrove, dopo qualche fiammata, si spegne. É, insomma, la settimana rossa. I dimostranti se la prendono con le ferrovie, le chiese e con il dazio. A Cesena e a Ravenna proclamano la repubblica. È una settimana di orgia parolaia. Lascia, però, il segno su chi la promosse: Nenni, Malatesta e soprattutto Mussolini.

A Rimini le cose si tennero al meno peggio. I dimostranti se la presero contro guardie di P.S., poi contro la farmacia Duprè che ebbe i vetri rotti. A sera, per precauzione, si tenne la città al buio. Il mercoledì cominciò lo sciopero ferroviario. Incendiarono il ponte dell'Ausa, le vetture, i pali telegrafici, distrussero i fanali della Stazione. A sera i dimostranti tentarono di bruciare la porta del Duomo e fecero scoppiare una bomba nelle vicinanze del Seminario. Presero poi d'assalto il negozio dell'armaiolo Fava e la manifattura Santarelli, spargendo terrore in tutti i negozianti.

Tennero, insomma, la città in loro balia. Carabinieri e agenti di P.S. erano presi a sberleffi e fischi. Ferirono un carabiniere nel borgo San Giuliano. Fu dato fuoco alla porticina laterale del Tempio Malatestiano, fu tentato di darlo al tempietto di Sant'Antonio, alla cancelleria vescovile e alla porta del Municipio e, alla fine, attaccarono gli uffici del dazio, bruciando registri, bollette e prendendo fucili e carabine. Insomma, anche a Rimini fu Repubblica.

La forza pubblica si tenne per quanto possibile in disparte per non aggravare la situazione. I riminesi non uscirono di casa, non furono aperti negozi e botteghe. Tutti temevano il peggio da quella massa di scamiciati vogliosi di barricate. Quando seppero della cessazione dello sciopero, i dimostranti non vi credettero e se la presero con il Governo, reo d'avere inventato, a loro dire, la falsa notizia. In verità dicasi che la rivoluzione era, per così dire, una rivoluzione all'italiana, senza capo né coda, né uno che la guidasse a un risultato concreto.

La solita faciloneria della sinistra italiana, la solita ubriacatura di parole. Nessun capoccia si faceva vedere alla testa dei rivoltosi, il loro comando generale continuava a rimanere nella farmacia dell'Ospedale. In sostanza, la settimana rossa fu a Rimini un insuccesso. E parimenti lo fu nelle Marche. A Fabriano si disse la settimana dei polli perché un carico di galli e galline fu liberato alla stazione durante lo sciopero.

In Romagna, per non parlare di altre parti d'Italia, rovesciò alcuni preparandoli dal rosso al prossimo nero. Questa famosa settimana rossa dette ai nazionalisti il destro di trascinare migliaia e migliaia di italiani a dimostrazioni che per imponenza dicevano che l'Italia non era terra per il rosso se non ancora per il nero.

Oreste Cavallari