I BEI MATRIMONI DI UNA VOLTA

A Montecalvo Irpino (AV) dove sono nato e cresciuto, i matrimoni una volta erano delle belle feste di famiglia. Quel che occorreva per il banchetto era prodotto dai genitori degli sposi, vino compreso. I parenti degli sposi partecipavano allo sposalizio indossando il costume tradizionale della festa ed esibivano gli ori di famiglia. Lungo il tragitto si distribuivano manciate di confetti. All'uscita dalla chiesa si lanciavano sugli sposi menule e cannellini, confetti grandi e confettini lunghi. Dopo il pranzo si ballava il valzer, la mazurca, il tango, il passetto (wan-step), la quadriglia, il foxtrot, ma la privilegiata era la tarantella.

Gli incontri dei giovani: una volta i luoghi e le occasioni d'incontro erano le fontane, dove le ragazze andavano a fare provvista d'acqua per la famiglia o fare il bucato, i lavori agricoli come semina e mietitura per moltitudini di braccianti presso i massari, i mercati settimanali, le fiere, le feste religiose di paese, i pellegrinaggi e le feste di famiglia in occasioni di matrimoni, battesimi, comunioni e cresime. Anche i balli sull'aia, certe sere d'estate dopo la trebbiatura, al chiarore delle lampade ad acetilene legate ai pali, servivano come diversivo al duro lavoro nei campi, oltre che per il divertimento e la socializzazione dei giovani.

Era un modo molto diffuso anche nelle cascine del Nord Italia. Nelle sere d'inverno, le famiglie del vicinato si riunivano nella parte pulita e asciutta della stalla, in cui vi erano vacche e giumente, e raccontavano aneddoti e fatti di cronaca paesani o nazionali. Tra i ragazzi si facevano scherzi e giochi di società. Una scena, questa, rappresentata molto bene da Ermanno Olmi, nel suo film L'albero degli zoccoli.

Qualche ragazza in età da marito, per la quale non si faceva avanti alcun pretendente, si recava al mercato sottobraccio con la madre o con qualche zia per mostrarsi, e i pettegoli insinuavano che portavano a vendere la giovenca. Di qualche altra si spettegolava che non era piazzabile perché sgualdrinetta, oppure insinuavano che per maritarsi, dovevano costruire una chiesa nuova. L'amore è un sentimento libero, ma nella società contadina non sempre era così. In tanti casi era un sentimento obbligato, nel senso che il fidanzamento era combinato, tra un maschio che era in età da matrimonio e una ragazza in età da marito.

In una comunità non alfabetizzata come quella contadina, le ragazze, superata l'età puberale, erano pronte per essere date in sposa e mettere al mondo una numerosa prole. Quasi fossero delle fattrici. In alternativa superati i 25-30 anni senza aver trovato marito, le donne scartate erano accantonate, come vecchie zitelle. A volte, era l'innamorato a dichiarare formalmente il proprio amore alla ragazza adocchiata. Altre volte le proposte di fidanzamento potevano essere avanzate dai genitori del maschio alla famiglia della ragazza o, su delega, da ambasciatori, sensali, compari, parenti o amici di famiglia. Il portatore della richiesta, quasi a scusarsi, dichiarava: Ambasciatore non porta pena.

Naturalmente lui esponeva pregi e qualità del giovane, della famiglia d'appartenenza e le allettanti condizioni patrimoniali. Insomma si trattava di un buon partito da non sottovalutare. Comunque, mai la famiglia di una ragazza avrebbe potuto inviare un'ambasciata alla famiglia di un maschio! Si trattava di un tabù consolidato nei secoli. Le giovani contadine che non trovavano marito nel proprio paese, perché non più illibate o perché vittime di pregiudizi e maldicenze, avevano una sola speranza: maritarsi con qualche vedovo o separato di fatto, o con uomini di qualche paese vicino.

In questo caso si mettevano in moto i sensali di matrimonio che, in cambio di adeguato compenso, concludevano una sorta di tratta delle mogli. D'altronde, non esistevano ancora le agenzie matrimoniali. E c'è da aggiungere che raramente i matrimoni di questo tipo fallivano. Forse, dato che entrambi i contraenti avevano fatto fatica ad accasarsi, erano preparati a superare incomprensioni reciproche e divergenze caratteriali.

Pompilio Parzanese