BORGO MARINA

Ariodante Schiavoncini, 1922 - 2013, figura di rilievo della politica riminese, in questo racconto ricorda avvenimenti della sua umile vita infantile trascorsa, dopo il 1928, con la madre vedova, nel riminese rione Clodio.

Le vie del Borgo Marina e della Castellaccia sono stati i luoghi dei nostri giochi e birichinate. Ero un fanciullo gracile, ma mi sforzavo di non avere paura, tenendo testa a quei miei coetanei che cercavano di dettare legge con la prepotenza. Ricordo anche la prima volta che fui picchiato da mia madre. Un giorno che per l'ora di pranzo la mamma non era ancora tornata a casa dal lavoro, un mio amichetto mi convinse a prendere un tegame e andare con lui al Padaiòun in via Ducale, dove l'Ente Comunale per l'Assistenza ai poveri ogni giorno distribuiva delle scodelle di minestra calda.

Ogni assistito presentava all'addetto alla distribuzione un buono rilasciato dal Comune. Terminati gli aventi diritto, distribuivano la rimanente minestra, la scopola, a quelli senza buono. Io e il mio amichetto attendemmo in fila che servissero i possessori dei buoni, quindi ci presentammo per ricevere una scodella di pasta. Un particolare mi è sempre rimasto nella mente: diversi di quei poveri non avevano dei veri tegami, facevano mettere la razione di pasta in barattoli coi manici di filo di ferro.

Tornato a casa con il mio tegamino di maccheroncini, trovai la mamma che mi aspettava. Era molto arrabbiata, e quando vide il tegame con la pasta, perse la ragione e cominciò a picchiarmi con una ciabatta gridando: La gente può pensare che non sia in grado di sfamare mio figlio, non farlo mai più. Quando torno dal lavoro devi essere a casa. Come dopo un temporale torna il sereno, poco dopo si calmò e mi strinse forte fra le braccia, piangendo come una bambina. Io pure piansi mortificato e pentito. Cessato il pianto, si asciugò le lacrime e mi disse: Mangiamo la pasta che hai portato a casa.

Via Ducale, conosciuta col nome di Castellaccia, era la zona non solo del padaiòun, ma anche del dormitorio pubblico, quasi vuoto d'estate e frequentato dai senzatetto d'inverno. Nella Castellaccia c'era anche l'unico macello pubblico riminese. Ogni giorno, terminate le macellazioni, i lavoranti lavavano i pavimenti e scaricavano il liquame nel porto, e l'acqua diventava tutta rossa di sangue. Se, grazie al Marecchia, ci fosse stato corrente, la macchia rossa sarebbe arrivata al mare in breve tempo, altrimenti restava a galleggiare nel porto per giorni.

Il fiume Marecchia allora sfociava nel porto perché il deviatore della Barafonda non era stato ancora costruito, e a ogni piena il borgo era invaso dalla fiumana, e le barche dei pescatori ormeggiate in porto erano spesso danneggiate. A quei tempi, unite al ponte Tiberio dalla parte di via San Giuliano, ciottolata e stretta, c'erano ancora delle case basse, poi demolite negli anni '30 per completare via Tiberio.

Nei mesi estivi l'acqua del fiume era poca, ma al centro dove scorreva senza sosta, era limpida e fresca. Si sceglievano pozze laterali, quasi stagnanti, dove la corrente era lenta e l'acqua limpida, scaldata dal sole. Noi bambini facevamo il bagno nudi come se fossimo nella tinozza di casa. Le donne invece facevano il bagno con lunghe camicie da notte che quando erano bagnate si appiccicavano alla pelle e diventavano trasparenti, mostrando tutto quello che avrebbero dovuto nascondere.

Sguazzavamo nelle pozze d'acqua calda come fossimo al mare, anche se nel fiume sassoso eravamo costretti a muoverci con cautela. Vicino al ponte di Tiberio dove l'acqua era più alta, imparai a nuotare, aiutato dai bambini del borgo, frequentatori del fiume. In pochi anni, come la maggioranza dei miei amici, mi perfezionai nuotando per ore senza fermarmi.

Ariodante Schiavoncini