UNO SGUARDO AL PASSATO

Ariodante Schiavoncini, 1922 - 2013, figura di rilievo della politica riminese, con questo racconto ritorna alla sua infanzia quando, nel 1928, con la madre rimasta vedova, con l'unica risorsa di sostentamento rappresentata dal modesto salario di donna di servizio, andò ad abitare nel popolare rione Clodio. La sua situazione economica era di tale disagio che la madre si vide costretta a dare in affidamento la sua sorellina, a una cugina del babbo a Bologna.

Dopo la morte del babbo io e la mia mamma traslocammo in via Clodia. Andammo ad abitare sul lato opposto della strada dove c'era una fontanella pubblica, che erogava acqua giorno e notte. La porta d'ingresso di casa era vicina all'angolo di un vicoletto puzzolente che collegava via Clodia con via Santa Maria al Mare. A metà del vicoletto, a poca distanza dalla finestra dell'unica camera dell'appartamentino, sul muro esterno c'era un orinatoio pubblico. Per il cattivo odore che emanava non si apriva quasi mai la finestra.

Dalla porta d'ingresso si accedeva alla cucina che uno stretto corridoio univa alla camera. A metà corridoio c'era un rudimentale gabinetto, chiuso da una tenda, in pratica uno sgabuzzino con un piano rialzato al centro del quale si trovava un largo foro, da chiudere dopo l'uso con un coperchio di legno con manico. La mia mamma lo teneva pulito e disinfettato, per contenere la presenza di topi e scarafaggi che non mancavano in quella casa umida.

La mia mamma aveva due lavori: di pomeriggio come donna di fatica in un albergo vicino alla stazione, al mattino come donna di servizio presso una famiglia abitante in un edificio di piazza Giulio Cesare (oggi Tre Martiri). I proprietari dell'albergo possedevano anche il Cinema Fulgor e lei, non potendomi portare con sé al lavoro, mi posteggiava al cinema. Per qualunque necessità dovevo rivolgermi al proprietario che era alla cassa del locale. Questo mi consegnava qualche caramella, un cartoccio di sementine, e li rimanevo in attesa che mia madre tornasse a riprendermi ultimato il lavoro. Di quel periodo ricordo un paio di film muti. Film che rivedevo più volte fino a quando non tornavo a casa con mamma.

Il mattino invece, poiché non andavo più all'asilo Baldini, e non frequentavo la scuola, la mamma era costretta a lasciarmi a casa da solo, naturalmente con le dovute raccomandazioni e i buoni consigli. Nel periodo in cui vissi in via Clodia per me e, un mio amichetto coetaneo, figlio di uno spazzino, la strada era palestra e campo da gioco nel senso vero del termine. Eravamo attratti dal vicino giardino Ferrari, con i suoi fitti cespugli sempre verdi, i piccoli alberi di cachi che lo circondavano, la vasca dai pesci rossi che ci divertivamo a spaventare, la vecchia cancellata arrugginita che scavalcavamo anziché passare dal cancello d'ingresso. La scalata al monumento dei caduti faceva arrabbiare il vigile urbano, che ci inseguiva in bicicletta senza alcuna volontà di prenderci, solo di allontanarci.

Scorazzavamo per tutte le vie del Borgo Marina, i bastioni, la zona delle varie case di tolleranza, che noi bambini non sapevamo nemmeno cosa fossero. In zona vi era anche il lavatoio Comunale e noi bambini non ci facevano mancare l'occasione per provocare le simpatiche, muscolose lavandaie. A volte, ridendo, ci scagliavano le spazzole perché gridavamo U si ved è cul (Si vede il sedere). Era vero che si vedevano le mutande, perché per non bagnarsi, si tiravano su le sottane, e poi, chinandosi per lavare, scoprivano il posteriore.

Un giorno una di loro, mentre ero nei pressi, con uno scatto improvviso che non immaginavo, data la mole del suo corpo, mi prese per un braccio trascinandomi vicino alla vasca, fra le risate delle altre lavandaie. Urlavo e mi dibattevo inutilmente per liberarmi, lei invece mi insaponava la testa. La schiuma mi era entrata in un occhio, gridavo che mi bruciava e lei ridendo diceva: Cos^ vedrai meglio il nostro deretano. Da quel giorno, quando si passava nei pressi, gridavano per deriderci: Venite che vi laviamo la testa.

La Redazione