Veniero Accreman, 1923 - 2016, figlio di ferroviere, partigiano delle brigate Garibaldi, già sindaco della città, deputato al Parlamento per due legislature, avvocato penalista, ha lasciato memorie scritte della sua gioventù; fra queste, il racconto del suo rientro a Rimini dopo il passaggio del fronte.
Mi trovavo a San Marino quando appresi che Rimini era stata liberata il ventuno settembre. Alle cinque del mattino scesi a Borgo; qui trovai una jeep con due soldati inglesi che andavano a Rimini. Mi infilai nella jeep; guidava un soldato e gli sedeva accanto un caporale. Vedevo in quei due ragazzi il mio stesso volto, la mia stessa urbanità. Col mio inglese ginnasiale cominciai a conversare. Si informarono di me, della mia famiglia, dei miei progetti. Spiegai che avrei studiato da avvocato; dissero qualcosa sull'avvocatura in Inghilterra.
Si parlò di guerra. Mesi addietro avevo tenuto per il CLN collegamenti con un gruppo di azione partigiana di Bellaria e domandai se era stata liberata. Il caporale mi rispose che ciò era top secret. Non comprendevo, ma non insistetti. Mi sembrava che ogni cosa fosse amica; e così era, infatti. Tutto, persone e cose, si mostrava sotto l'aspetto che ha un mondo quando ha temuto di perire ed è sopravvissuto.
I pensieri si allargavano come cavalli liberi in corsa. Come in ogni grande rinnovamento, le idee erano elementari e grandiose. Eravamo a un nuovo inizio; si dovevano disegnare le linee della nuova società. Non v'erano incertezze; ciò che era bene e male era chiaro, netto. Che, finita la guerra, gli uomini sarebbero vissuti in armonia, in fratellanza, era fuori discussione; che si sarebbero dati regole, leggi e modi di vita tali da evitare d'ora in avanti ogni violenza e ogni ingiustizia, era quanto di meno si potesse immaginare; che qualcuno pensasse di prevaricare sull'altro, dopo le traversie passate, era inconcepibile.
Stimavo una grande fortuna riprendere lo studio e lavorare per costruire la nuova società. Ci eravamo preparati nei cenacoli, leggendo libri, facendo ipotesi, discutendo teorie, imbevendoci delle visioni egualitarie dei pensatori sociali. Perfino il linguaggio, mi dicevo, avrebbe dovuto essere diverso, improntato a una nuova gentilezza, alla fraternità, volto ad ascoltare, a soccorrere. L'auto filava veloce nell'aria ferma, piena di sole, ma già attraversata da un brivido. Guardavo il cielo di Romagna, azzurro e grigio, dolce e imbronciato, come tra promessa e ritegno.
Avvicinandoci alla città, i controlli aumentavano: polizia militare, richieste, spiegazioni. Entrammo dalla porta San Giovanni; la vecchia piazza Giulio Cesare, sorta nel luogo dove il vincitore delle Gallie arringò i legionari e mosse contro Roma, appariva scoscesa, come sprofondata e risollevata; le bombe l'avevano sconvolta e rivoltata molte volte. Adesso era trasformata in una enorme officina per carri armati. Il tragitto del corso d'Augusto era segnato da margini liberi; appena qualche perimetro vuoto ed erboso diceva che lì c'erano stati dei palazzi. Solo il ponte di Tiberio, bianco levriero di pietra, che da duemila anni scavalca d'un balzo le acque scure del Marecchia, aveva detto no alla guerra, aveva riso dei grappoli di bombe spioventi dal cielo ed era rimasto intatto nella sua chiarità.
Scesi dalla Jeep in piazza Cavour. Era uno sfacelo: raso al suolo il Municipio, raso al suolo il Teatro, al suolo tutti i palazzi circostanti; la piazza sembrava un vasto prato; restavano in piedi solo la facciata dell'Arengo quattrocentesco e del Teatro e l'ingresso della vecchia Pescheria. Dovunque mura sbrecciate e buche enormi. Tre Sherman coi cingoli rotti erano abbandonati lì in mezzo. Su un angolo miracolosamente in piedi, un alberghetto; lì si era installato il comando militare alleato e il comitato di liberazione nazionale.
Mi congedai con gratitudine dai due inglesi. Non guardai nulla; volai verso la circonvallazione, la mia strada, la mia casa. Eccola, la mia casa! Non c'erano più cancelli, il piano di sotto era occupato da militari inglesi. Salii al piano di sopra: non c'era più nemmeno una porta, ma la casa, completamente vuota, era lì intatta, uguale a come l'avevo lasciata tanto tempo prima; la guerra l'aveva risparmiata.
Veniero Accreman