RISORSE MARINE

Ariodante Schiavoncini 1922 2013, figura importante della società e politica riminese, abitò fin da ragazzino nella frazione di San Giuliano a Mare (Barafonda). Suo questo racconto di come ai suoi tempi per la popolazione più povera il mare rappresentasse una rilevante e gratuita risorsa alimentare.

Nei giorni estivi, quando il cielo era sereno e il mare calmo, andavo a pescare le ostriche con un moscone che la mosconaia mi permetteva di usare, grazie all'aiuto che le davo a trascinare in secca i mosconi a fine giornata. Partivo la mattina presto prima che si alzasse la brezza marina. Remavo fino a qualche centinaio di metri dalla riva nella zona dove c'erano mucchi di grossi sassi, che noi in dialetto chiamavano gli scan.

Ancoravo il moscone perché non si allontanasse, usando una grossa pietra calata sul fondo, legata a una corda fissata al moscone, poi mi tuffavo. In genere lo scan si trovava a quattro - cinque metri di profondità. All'inizio, avendo molto fiato, mi tuffavo, ispezionavo il fondo e raccoglievo diversi sassi con ostriche attaccate che portavo sul moscone; poi, dopo diverse immersioni, quando il fiato cominciava a diminuire e il freddo a infastidirmi, scrutavo il fondo restando sul moscone, individuavo i sassi giusti e mi tuffavo per andare a raccoglierli.

Una parte delle ostriche le vendevo ai forestieri, bagnanti mattutini che si munivano di coltello e limone e le mangiavano sotto la tenda della mosconaia. Le rimanenti le portavo al ristorante Il Lucernone che si trovava al lato destro del molo. Non essendo ostriche di qualità, le pagavano poco, ma ero ugualmente soddisfatto. Era un divertente impegno di poche ore, svolto in libertà: il massimo che il mio carattere potesse desiderare.

I mitili, bdoc in dialetto, li pescavo sugli scogli alla punta dei due moli e li portavo a casa, come facevo anche quando raccoglievo le vongole, al purazi. Le vongole erano un cibo quasi giornaliero; la mia mamma, oltre a condirci gli spaghetti, spesso le metteva dentro un tegame, sul fuoco, con uno spicchio d'aglio, foglie di prezzemolo, qualche cucchiaio d'olio e polpa di pomodoro. Le vongole nell'aprirsi si svuotavano dell'acqua, formando un sugo saporito che mangiavamo intingendo il pane.

Erano risorse che il mare offriva alla povera gente. Nei mesi primaverili quasi tutte le famiglie della Barafonda mangiavano i gozzi, pesci conosciuti anche come paganelli, in dialetto guvàt, che si pescavano facilmente per la loro voracità e la straordinaria abbondanza. Lo specchio d'acqua alla sinistra del porto, a poche centinaia di metri dalla riva, si popolava di femmine che venivano a deporre le uova, seguite da maschi fecondatori.

Con un moscone o un piccolo battello, adoperando contemporaneamente diverse lenze - legni in dialetto - in poco tempo si pescavano diversi chili di pesce. Chi non possedeva un natante andava ospite di amici, se non trovava l'imbarco si recava a pescare fra gli scogli, alla fine del molo sulla sinistra. In qualunque modo la cena era assicurata. Il paganello non è un pesce pregiato perché molto spinoso, ma ha una carne bianca e gustosa. È buonissimo cucinato in qualunque modo: anche il riso è ottimo, cotto nel brodo di quel favoloso pesce povero.

Nei mesi invernali, dopo le burrasche marine, si scendeva sulla spiaggia e si camminava lungo la battigia dove l'onda moriva, per cercare le seppie senza testa. Erano seppie alle quali i delfini avevano mangiato la testa e i tentacoli, spinte a riva dalle correnti marine.

Ariodante Schiavoncini