DOPOGUERRA: FATTI E MISFATTI

Franco Fontemaggi, classe 1930, prima di emigrare ancora giovane in Svizzera (Losanna), abitò nel centrale borgo cittadino della Castellaccia. Nei suoi ricordi rivive i tempi dell'immediato dopoguerra, le dure condizioni di vita e il diffuso metodo dell'arrangiarsi.

Era appena passato il fronte di guerra e la Castellaccia si rianimava anche dei nostri giochi che erano quasi sempre accompagnati da dispute e urla. I nostri litigi terminavano con il ritorno al lavoro nelle varie botteghe artigiane. Poche erano le case non toccate dai bombardamenti: qua e là pezzi di muro che bastava un soffio per farli cadere, travi cadute dai tetti e infilate a metà sotto montagne di calcinacci e di mattoni, saracinesche dei negozi piegate come grossi pancioni.

Del negozio di Sali e tabacchi all'angolo di piazza Cavour e via Sigismondo non restava che un solo muro sul quale, con un certo manierismo, uno sconosciuto artista aveva disegnato un forgiatore intento a spezzare una catena che avvolgeva il mondo sul quale campeggiava la scritta: Proletari di tutti i paesi, unitevi. Per liberare le strade dalle macerie, un sergente inglese ci consegnò un camion Dodge completo di badili e di una bella scopa fissata in verticale sulla cabina del conducente.

Ma che ci stava a fare una scopa lì? Così qualcuno pensò di sostituire quel pennacchio inanimato con una bella bandiera. Apriti cielo! Il sergente Jimmy ci sbarrò la strada e ci seppellì sotto una montagna di improperi e dai suoi gesti capimmo che dovevamo togliere quella bandiera; evidentemente il rosso non era il suo colore preferito! I nostri rapporti con lui non erano sempre dei più cordiali, come quella volta che cercavo di disseppellire un sacchetto di noccioline che loro avevano gettato. Io ero curvo sulla refurtiva quando lui mi rifilò una pedata che mi fece planare sul ventre: una maniera come un'altra di farmi capire che quelle noccioline erano avariate.

Quelli del borgo San Giuliano, i vari Cadinon, i Mazzaset, gli Armandino, i Toio, sempre in cerca di mezzi di sostentamento, un giorno inventarono un marchingegno: un'ancora, con una decina di metri di corda, doveva fungere da arpione per sottrarre dai camion degli alleati parte di quel bendidio che trasportavano. Sui lastroni di pietra d'Istria del ponte Tiberio i camion rallentavano, sembravano mettere le pantofole per non disturbare quel Vecchio che da duemila anni, a cavallo del Marecchia, sonnecchiava tranquillo.

Nascosti all'inizio del ponte, quelli del borgo attendevano. Appena passava un camion, uno di loro gettava l'ancora sotto la tela che lo copriva, mentre il resto della banda dava lo strattone alla corda. Una volta tirarono giù un cartone di scatolette di pancetta arrotolata, un'altra volta una cassetta di uva secca e un'altra volta arpionarono la martingala di un cappotto e tirarono giù... un nero che, rivolgendo le mani al cielo, implorò aiuto al suo buana.

Franco Fontemaggi