Veniero Accreman, 1923 - 2016, figlio di ferroviere, già sindaco della città, partigiano, deputato al Parlamento per due legislature, avvocato penalista, ci ha lasciato memorie della sua infanzia foriere della sua formazione e del suo successivo percorso di vita.
La scuola mi portò stimoli contrastanti: da un lato l'insegnamento ampliava l'educazione che ricevevo in famiglia; dall'altro la vita scolastica prendeva inaspettatamente un aspetto diverso nelle ore (erano molte) che venivano dedicate a un ammaestramento speciale chiamato nelle pagelle cultura fascista. Era un corso aggiuntivo di attività, riti, comportamenti, che miravano a integrare completamente la persona dello scolaro nel regime.
Tutti gli alunni, a tempo debito, in giorni e ore prestabiliti, avevano l'obbligo di partecipare alle riunioni, adunate, esercitazioni che andavano dal canto di inni fascisti alle marce, dai saggi ginnici a interrogazioni sulla rivoluzione fascista, da audizioni radiofoniche all'uso simulato di armi leggere. Tutte le manifestazioni avevano luogo in divisa; e le divise seguivano l'età: balilla, avanguardista, giovane fascista. La città, in singoli giorni e ore, pullulava di divise.
L'impatto con questo tipo di ammaestramento fu traumatico. Erano innanzitutto le parole di quei rituali che mi disturbavano. In classe il maestro c'insegnava a costruire una frase, un pensiero, a ragionare, a esprimerci; fuori della classe, altre persone prendevano improvvisamente il suo posto con atteggiamenti del tutto diversi. Erano persone tronfie, arroganti, con visi volgari, spesso piegati nella smorfia, spesso sboccati. Parlavano e molte volte urlavano: di patria, duce, fascismo, incitandoci a manifestazioni urlate, a nostra volta.
Si doveva gridare, ripetere frasi quasi prive di significato. Importante era gridare insieme. Ero un individualista nato; quella irreggimentazione affogava ogni sentire personale, ogni tentativo di discorso, di dialogo. L'immagine del duce era dappertutto; nei libri, nei manifesti, ai cantoni delle strade, sugli edifici, unitamente al simbolo del fascio; il più delle volte era con elmetto e sottogola, a significare che in qualsiasi momento, anche improvvisamente, poteva accadere qualcosa che aveva a che fare con le armi.
Ma le divise variopinte, le marce, le ginnastiche, le fanfare, a che portavano? Dove si doveva andare? Alla fine di ogni manifestazione ci veniva detto che un giorno la patria, il duce, avrebbero avuto bisogno di noi e ci avrebbero chiamati; bisognava esser pronti per quel giorno; non capivo cosa avremmo dovuto fare. Tutto, in ogni modo, veniva compiuto in relazione a un futuro, che sarebbe immancabilmente venuto, ma non si capiva in che consistesse.
La Redazione