Veniero Accreman, 1923 - 2016, figlio di ferroviere, già Sindaco della città, partigiano, deputato al Parlamento per due legislature, avvocato penalista, ha lasciato memorie scritte in cui ha rievocato episodi della sua infanzia, forieri di un determinato percorso di vita. Qui se ne riporta uno.
Dovevo essere in prima elementare, a sei anni. Iniziando a frequentare la scuola, avevo conosciuto molti bambini; si allargava la cerchia dei discorsi. Ogni alunno parlava della propria famiglia. A casa avevo percepito, sempre da mezzi discorsi, che mio padre era un anarchico; non comprendevo il significato della parola, ma nel linguaggio dei miei, seppure trattenuto, non c'era un senso negativo (più tardi compresi che mio padre professava teorie degli anarchici buoni, quelli che ponevano l'umanità sugli altari e predicavano l'avvento di una società senza violenza e senza ingiustizie).
Così un giorno dissi a scuola, ai miei compagni: Mio padre è un anarchico. Non capivano nemmeno loro, ma a me pareva di essermi qualificato, ai loro occhi, in modo diverso dagli altri. Capitò che, durante le vacanze di Natale, mentre giocavo a palla con mia cugina su un pianerottolo di casa (lei aveva tre anni più di me), le raccontai ciò che avevo detto a scuola. Essa, più avvertita, raccolse veloce la palla e corse di sopra a raccontare il fatto a sua madre; questa immediatamente lo comunicò agli altri familiari e nel giro di pochi minuti fui investito da un cumulo di intimidazioni: si voleva sapere con chi avevo parlato, quando, come, che cosa di preciso avevo detto; il semplice fatto che io lo narrassi non sembrava credibile.
Poi ebbe luogo un violentissimo rimprovero che mi parve irragionevole, misto ai loro discorsi di politica e a tentativi affannosi di spiegazione su ciò che potevo dire e su ciò che non avrei mai dovuto dire fuori di casa. Capii soprattutto che non avrei mai più dovuto ripetere un simile discorso. Fui fortemente impressionato da quella reazione che aveva superato di gran lunga le sgridate precedenti. La cattiveria dei miei famigliari (così mi sembrò) mi fece paura; capii solo più tardi che era la loro paura, ciò che avevano trasferito in me.
Da quel momento si fece più viva in me la curiosità di conoscere questa cosa che veniva chiamata la politica. Sì, fuori dalla famiglia c'era un'entità nemica, potente, temibile, la cui capacità offensiva si fermava, per fortuna, di fronte al solido portone di casa, ma con la quale si profilava per me la necessità di fare i conti, così come li stavano facendo mio padre e tutti i miei famigliari.
Veniero Accreman