UN BOMBARDAMENTO A VERONA

Sollecitato più volte a estrarre dallo scrigno dei ricordi qualche episodio degno di essere portato alla luce perché significativo di quale fosse la vita durante gli ultimi anni della II Guerra Mondiale, mi sono lasciato convincere a raccontarne uno, sempre attinto dalle memorie di mio padre Alessandro. Aggiungo che quanto accaduto avrebbe potuto essere decisivo per lo svolgimento futuro della mia vita personale e il motivo lo si scoprirà leggendo quanto segue.

Mio padre, macchinista FS, stava conducendo un treno merci sulla consueta linea ferroviaria Bologna - Verona e gli faceva compagnia, oltre all'aiuto macchinista, un capotreno tedesco anziano (e per questo esonerato da altri incarichi militari), cui erano assegnati compiti di controllo e di responsabilità del treno stesso (si ricordi che eravamo già oltre quel tragico 8 Settembre 1943, con le truppe germaniche calate in massa nella nostra già martoriata Italia).
Orbene, fra questo tedesco e mio padre, per essere entrambi ferrovieri ed essere accomunati dalla comune età anagrafica di circa 40 anni, si era stabilito un discreto modus vivendi nel condividere il poco spazio della cabina di guida, dove il tedesco si trasferiva frequentemente dalla cabina opposta, assegnatagli per espletare il suo lavoro amministrativo.

Era il 25 Settembre 1943 e, giunti in località Ca' di David, si presentò il segnale rosso di accesso alla Stazione di Verona Porta Nuova. Il motivo: una formazione di B29 stava sorvolando Verona. Qui occorre ricordare che era prassi consolidata che ogni bombardamento fosse preceduto da un sorvolo d'ispezione degli obiettivi da colpire; perciò quei bombardieri ben presto virarono di 180 gradi per allontanarsi momentaneamente. Mio padre era ben consapevole di questa procedura, ammaestrato dai tanti bombardamenti effettuati su Rimini, e quando il solerte addetto alla sirena d'allarme attivò il segnale di cessato allarme, sperò di convincere il tedesco a non riavviare il treno facendo leva sul buon rapporto che si era instaurato tra loro, ma nello scontro di due opposte mentalità prevalse quella rigida di quest'ultimo.

È quasi scontato dire che, arrivati agli scambi d'ingresso alla stazione di Verona, suonò ancora l'allarme e una manciata di minuti dopo venne giù dal cielo l'apocalisse. Mio padre portò il locomotore il più avanti possibile, ma non tanto da garantirsi la salvezza (la stazione di Verona Porta Nuova è stazione di testa); poi, correndo e alternativamente gettandosi a terra, riuscì a scampare all'inferno di schegge e pietrisco della massicciata, scagliati ad altezza d'uomo, con la linea elettrica di contatto che, cadendo a terra, innescava scariche elettriche, fuoco e fiamme.

Terminata quella incursione, ritornando sui suoi passi, poté osservare atterrito il disastro; non trovò più quel testone di capotreno e neppure il Capo Deposito cui avrebbe dovuto consegnare la zona tachimetrica, foglio di viaggio, come era d'obbligo nelle condizioni normali, (quei documenti li conservo gelosamente e da essi risulta il numero del treno 7712, il locomotore E428108 e anche il cognome dell'aiuto macchinista Bettini). Ora si può ben comprendere perché non dimenticherò mai quella tragica data che avrebbe potuto rendermi orfano anzitempo e privato di quella guida paterna che tanto ha influito poi nello svolgersi del mio futuro.

Per rendere più comprensibile il dramma consumatosi quel giorno, aggiungo un eloquente particolare relativo al suo rocambolesco ritorno a casa: mio padre riuscì, recuperando la sua bicicletta che teneva sempre in cabina, a prendere un treno da una stazione limitrofa a Verona, giungendo alla stazione di Tavernelle dell'Emilia, situata a una decina di chilometri a nord di Bologna C.le (questa era inagibile) e da questa località, percorsi in bicicletta oltre 120 chilometri, giunse finalmente a Rimini, domenica 26 Settembre.

Dopo un tentativo di riprendere servizio, valutata l'impossibilità di continuare in quelle condizioni psicofisiche, mio padre decise di darsi malato. Si noti che le Autorità sanitarie, già sottoposte al controllo tedesco e quindi non certo di manica larga, gli accordarono a più riprese ben 4 mesi di malattia - convalescenza (dall'ottobre 1943 al gennaio 1944). Ripreso servizio per circa un mese e mezzo, constatato che gli eventi stavano precipitando, decise infine di non presentarsi più all'appello, mettendosi di fatto nella posizione di disertore (si ricordi che tutto il personale ferroviario era militarizzato e quindi soggetto alle leggi militari di guerra).

Altra conseguenza di non poco conto era quella di non percepire più lo stipendio, che gli venne di nuovo concesso dall'Amministrazione inglese dopo la liberazione (Ottobre 1944) tramite il Compartimento di Ancona. E da quella data, anche nelle ristrettezze economiche e materiali del momento, si riprese a vivere nella prospettiva di un avvenire migliore.

Gian Carlo Lotti