Il socio Virginio Cupioli (Tonino), classe 1926, pensionato FS già Capo Stazione Superiore, in questo suo racconto indugia sull'onda dei ricordi ai tempi della sua infanzia e in questo caso si sofferma sulla condizione nella quale era di norma relegata la donna nelle sue incombenze domestiche e nei rapporti con il marito.
Avevano vari nomi Bigia, Veglia, Tiresa, Marietta, Vinosta, Sunta, Maria, Giulia e tanti altri, operose massaie, che giornalmente provvedevano alle necessità dei loro mariti e figli con solerte continuità e devozione. Le difficoltà erano tante, prima fra tutte la mancanza di acqua in casa, la prelevavano con secchi nei pozzi scavati nel sottosuolo, ciascuno per ogni abitazione, la potabilità era garantita dai pesci che venivano immessi e osservati nel loro stato di salute.
I cibi venivano cotti sui fornelli a carbone, la cui accensione era laboriosa, usavano le ventole di penne dei gallinacei, per alimentare il fuoco e ravvivarlo. Giornalmente preparavano la piada e sug e suffrett (il sugo e soffritto), i taiadlot (specie di maltagliati), i gnocc (gnocchetti) fatti con impasto di farina di grano e di farina di mais ritagliati per la minestra con fagioli. La domenica e i festivi tiravano la sfoglia sottile per i tagliolini in brodo, tagliatelle da condire con sugo di frattaglie e budelline di gallina.
Nella campagna raccoglievano le erbe (scarpegn, lavaste, radecc, burazna, spranlie, fiurun), commestibili, che dopo bollite e strette, venivano tritate e passate al tegame con aglio, olio (ottimo con la piada e salsiccia). Raccoglievano i funghi sugli alberi detti canadà e pioppi, che davano la certezza della non tossicità. In primavera cercavano le lumache che si muovevano dopo la pioggia, le scovavano fra l'erba spostando i ciuffi, partecipavano alla ricerca anche i bambini con i bastoncini.
Le lumache erano di vari tipi: lumachini bianchi, lumache bianche schiacciate dette piacleine, le normali color marrone striato, le gentili più chiare. Dopo raccolte, venivano fatte spurgare per una settimana sotto un bidone rovesciato con qualche foglia d'insalata, indi lavate più volte con acqua tiepida e aceto, agitate fortemente per mondarle dal muco, indi cucinate in un tegame di terracotta con finocchio selvatico fresco. Le marroni con sapore amarognolo non mi piacevano, però le mangiavo senza lamentarmi perché non c'era altro.
Dall'autunno alla primavera, quando disponevano di tempo, approntavano i cassun (cassoni), cibo che può definirsi da Re, perché corroborante e afrodisiaco. Raccoglievano il rosolaccio (rosole) che cresceva spontaneamente nelle vigne e nei campi lavorati, le mondavano dalle impurità, utilizzavano le foglie verdi e tenere non pelose, dopo il lavaggio venivano tritate finemente e messe con un po' di sale nella terrina. Dopo un po' di tempo, quanto basta, le scolavano dal loro liquido e le stringevano a palla fra le mani, indi le condivano con olio e aglio sminuzzato finemente. Riempivano a metà uno strato di rosole condite la piada cruda, la chiudevano con l'altra metà avendo cura di schiacciare i bordi fra di loro. La cuocevano sul testo in entrambe le parti. Essendo un cibo forte nel gustarlo era opportuno pasteggiarlo con un bicchiere di vino sangiovese rosso.
Curavano anche l'alimentazione degli animali domestici, il pastone per le galline nei periodi di molto freddo fatto con erbe cotte, semola e farina di mais, le foglie di acacia e determinate erbe per i conigli ai quali non veniva somministrata l'acqua, perché la traevano dai vegetali freschi. Erano conigli forti, semiselvatici, probabilmente razze estinte.
La supponenza dei mariti, a quel tempo evidente, in molti casi rivolta più verso l'esterno che in casa, non creava problemi, non se ne curavano. Molte mogli davano del voi ai mariti, avevano ereditato questa abitudine dalle usanze del passato. Fondamentali per il nucleo famigliare, allegre e facete verso l'esterno, prime a levarsi il mattino e ultime a coricarsi la sera, seppur stanche pensavano ai bisogni del domani, vere azdore romagnole e non può definirsi presunzione asserire che erano angeli senza aureola.
Virginio Cupioli