TESTIMONIANZA DI GUERRA

Affinché non se ne perda la memoria, sento il bisogno di rendere testimonianza di un fatto di cui è stato involontario protagonista mio padre Alessandro Lotti, classe 1904, ex macchinista in forza al Deposito Locomotive di Bologna C.le in un tristissimo momento della seconda Guerra Mondiale, testimonianza oltremodo necessaria in questi tempi di revisionismi storici e che vorrei non andasse perduta, tenuto conto che mio padre è deceduto 41 anni fa e che anch'io sto bruciando gli ultimi scampoli della mia vita, con gli 83 anni che mi ritrovo sulle spalle. Il fatto, raccontato dalla sua viva voce, è quello sotto riportato.

Ricordo di un evento drammatico di cui è stato testimone mio padre: la deportazione di ebrei caricati su carri bestiame. (periodo Febbraio 1944 - Linea ferroviaria Bologna - Verona)

Mio padre conduceva il suo locomotore E428 da Verona a Bologna, linea che percorreva quasi quotidianamente, quando, effettuata una fermata nella stazione di Nogara per consentire l'incrocio ad un treno proveniente da direzione opposta (la linea era e, forse, è tuttora a semplice binario), fu testimone di un fatto sconcertante.

Quel treno era composto da carri merci coperti, debitamente piombati, del tipo adibito all'occorrenza al trasporto di cavalli (in numero di 8) e anche di soldati (in numero di 40) e, in un primo tempo, quando la velocità era ancora notevole, quei carri che gli si sfilavano sul binario accanto non denotavano alcunché di anormale, ma diminuendo progressivamente la velocità, si avvide che il carico non era del tipo sopracitato, bensì di inermi persone civili.

All'arresto definitivo del treno, la cabina di guida dove si trovava mio padre si venne a trovare dirimpetto a una di quelle grate che servono per arieggiare i suddetti carri merci e da questa intravvide un uomo dall'aspetto distinto e con occhiali da vista, con il quale mio padre scambiò, stupefatto e traumatizzato oltre ogni possibile immaginazione, alcune parole che, perdurando il tempo di fermata dei due treni, dettero l'avvio ad un breve dialogo.

Questa persona, ancora ignara del destino che l'attendeva, disse che lui e le altre persone stipate nel vagone erano state prelevate dalle loro case perché di religione ebraica e destinate al Nord, forse in Germania.

Mio padre comprese subito la gravità di quello che gli era dato di vedere e di sentire e, quando quella persona azzardò la richiesta di una sigaretta, si apprestò senz'altro a porgergliela. Per fare ciò, considerando che la distanza tra i due convogli superava la lunghezza di un braccio (la persona prigioniera nel carro non poteva fare altrettanto perché impedita da quella grata), accese preventivamente la sigaretta, la infilò leggermente all'estremità di un filo di ferro che si trovava nella cabina di guida e così poté farla passare tra le maglie di quella grata.

E così finì quell'azione, con mio padre a meditare sulla bestialità del genere umano, ricordando però che quanto stava vedendo era certamente una conseguenza di quelle famigerate leggi razziali emanate nel 1938 dal fascismo e sottoscritte dal Re Vittorio Emanuele III, volute da Mussolini per assecondare i piani di Hitler con il quale si era disgraziatamente alleato, leggi tanto ostentate e reclamizzate al momento della loro emanazione, quanto occultate al popolo italiano nelle sue conseguenze estreme.

Ma ci fu una coda drammatica a questo episodio che sembrava dolorosamente concluso. Ad un certo punto l'aiuto macchinista, che si trovava al finestrino della cabina dal lato opposto di destra, si avvide che un tedesco (evidentemente una SS di scorta a quel convoglio) risaliva di corsa il marciapiede per raggiungere la cabina dalla quale aveva scorto quel passaggio sospetto, la sigaretta appunto. Urlava imprecazioni, come sanno fare bene i tedeschi con la loro dura lingua, con effetto accresciuto dalla rabbia con cui le proferiva, frutto di un profondo indottrinamento delle teorie naziste, e agitava in aria minacciosamente una pistola Mauser in sua dotazione.

A questo punto mio padre, temendo un epilogo tragico, si augurò che finalmente venisse dato il segnale verde per il proprio treno, cosa che avvenne prima che l'invasato tedesco avesse raggiunto la testa del treno.

Tornato a casa e resa a tutti noi questa testimonianza, non potè tuttavia non confessare di aver provato un senso di disagio e anche di vergogna per aver avuto quel fugace pensiero egoistico che rappresentava sì la sua unica salvezza, ma lasciava quella povera massa umana al suo tragico destino.

Il figlio Gian Carlo Lotti
ex C.Tecn. OGR Rimini