IL MUSEO DEI MINATORI DI MARCINELLE

Il 4 luglio 2006 mi trovavo a Bruxelles quale componente di una delegazione del patronato della CGIL, che avrebbe donato una scultura al museo dei minatori di Marcinelle. Quella sera, in occasione della semifinale dei mondiali di calcio, partita che opponeva l'Italia alla Germania, mi infilai in un bar munito di maxischermo, mischiato a dei turisti Italiani.

Alla fine della partita subito sono uscito in strada; credevo di trovare qualche Italo-belga che manifestasse la propria gioia per la vittoria, invece niente. Questo per circa dieci minuti. Dopodiché, giusto il tempo di partire dalle periferie dove abitano e raggiungere il centro città, migliaia di Italiani emigrati a bordo di auto imbandierate di verde bianco e rosso, hanno mandato in tilt il traffico della capitale del regno. Sembrava di essere in una qualsiasi città italiana. All'una di notte, sfinito dai festeggiamenti tenutisi alla Porta della Vittoria, per l'occasione sequestrata dai nostri connazionali, ho dato fine alla serata.

Al mattino, di buonora ho preso un autobus per Charleroi, di cui Marcinelle è un sobborgo tristemente famoso. La fama risale a 50 anni fa. Vide protagonisti involontari 275 minatori che rimasero intrappolati dallo scoppio della galleria. L'arrivo a Marcinelle mi commuove per via delle bandiere italiane appese alle finestre delle case, povere, ma dignitose casette di mattoni rossi, che espongono il nostro vessillo.

Il cancello di ingresso del sito della miniera (Bois du Cazier) somiglia vagamente a quello di Auschwitz, manca solo la scritta arbeit macht frei che i belgi hanno avuto il buon gusto di non mettere. Non sembri irriverente l'accostamento: sul finire della seconda guerra mondiale il carbone a Marcinelle veniva estratto dai prigionieri tedeschi; essendo contrario alla convenzione di Ginevra, quindi niente prigionieri, fu stipulato un accordo con lo stato italiano e quello belga (correva l'anno 1946): noi mandavamo poveracci in miniera e loro in cambio ci davano il carbone. Merce in cambio di braccia.

Quella mattina dell'8 agosto 1956 si salvarono solo in 13, i lavoratori morti furono 262 di 12 diverse nazionalità; nel Belgio del dopoguerra si potevano leggere scritte tipo: né animali né stranieri, ma un superstite mi racconta che laggiù in miniera non poteva esserci razzismo eravamo tutti neri.

Di quei 262 morti 136 erano italiani, quasi tutti delle regioni del sud. Rimasero fuori ad aspettare inutilmente 183 vedove e più di 400 orfani. Dopo quella tragedia molti italiani ritornarono a casa loro: nella miniera contava più il carbone delle persone.

Pompilio Parzanese