RICORDI D'INFANZIA

Il socio Benito Colonna, classe 1937, ferroviere pensionato, volge i suoi ricordi, non senza nostalgia ai tempi dell'infanzia a Rivabella di Rimini, dove tutt'ora abita, su un mondo che a tanti giovani d'oggi può apparire sorprendentemente arcaico, quasi irreale.

Succede a volte che mi giunga alle narici un particolare odore che risveglia alla memoria qualche ricordo lontano e dimenticato. Ebbene, ogni volta che mi capita di entrare in una stalla o in un locale attiguo, quell'odore caratteristico caldo e forte di sudore e alito bovino, mi riporta al periodo della mia fanciullezza.
Durante le fredde e grigie giornate invernali, sovente noi bambini di campagna andavamo a rifugiarci nell'unico locale riscaldato: la stalla alla cascina di Farel. Qui si giocava a nascondino, a carte. Oppure si ascoltava la nonna che, mentre filava, armata di rocca e fuso, ci raccontava fiabe o vecchie divertenti storie.

A proposito di filare, mi viene in mente il piacevole ricordo della tosatura delle pecore. Le povere bestiole si lasciavano girare e rigirare fra le mani dell'uomo cedendo il loro morbido manto senza farsi scappare un lamento, quasi compiacenti.
Della canapa, i cui semi erano il cibo preferito dai passeri, fringuelli e verdoni, ricordo vagamente la raccolta in fasci, posti a bagno negli stagni a macerare. Poi, una volta battute, le fibre venivano cordate, selezionate e adoperate nei vari usi.

Ritornando alla stalla, mi è rimasto impresso nella mente il ricordo del vecchio di casa, quando sostituiva il letto di paglia alle mucche, alimentando il fumante letamaio posto all'esterno della stalla e pure quando con il tritaforaggio preparava il pasto alle mansuete bestie. Non dimenticherò mai il profumo e il gusto di quel latte appena munto, bevuto quando ancora era impregnato di quel calore bovino. Ricordi lontani, gelosamente custoditi in me con tutte le loro sfumature.

Fra i tanti ricordi, anche se a malavoglia, non posso esimermi dal citare anche quello meno bello dell'uccisione e macellazione del maiale. Era una consuetudine di molti di allevare qualche suino per uso famigliare. Lo si faceva ingrassare per poi predisporre la macellazione che avveniva verso il mese di gennaio. Il povero animale sembrava accorgersi di cosa lo aspettava. Ma nonostante la sua ribellione veniva immobilizzato mentre l'esperto gli conficcava un coltellaccio sotto la gola trafiggendolo. Una donna di casa con un tegame raccoglieva il fiotto di sangue che sgorgava dalla ferita rimestandolo con un cucchiaio di legno. Sarebbe servito per preparare il sanguinaccio. Una pratica atroce, un lavoro crudele, ma necessario.

La vita contadina invernale era simile a quella estiva. Ricordo quelle giornate di giugno intrise del sudore della gente curva nei campi a mietere il grano. E la gentile donzella passare a dissetare quelle gole riarse con fiasca e bicchiere. E poi la battitura: gli uomini facevano a gara a buttar sulla trebbiatrice le mannelle di grano a colpi di forca. E il lento, ritmico colpo di scappamento del trattore che faceva scorrere la cinghia. E i canti e il pagliaio che cresceva a vista d'occhio. E dopo la battitura tutti a tavola fra discorsi e gioiose risate, fra portate di carne, pastasciutta fumante e buon rosso da scaldare le budella e lo spirito. E subito dopo, a pancia piena, al suono della fisarmonica, tarantella e saltarelli ballati a piedi scalzi sulla polverosa spianata dell'aia.

Ogni anno era un rituale atteso. Ogni anno, pur essendo sempre uguale, era un avvenimento piacevolmente nuovo nel quale si risaldavano quei vincoli di vera amicizia e non di rado nascevano nuovi amori. Quella vita agreste, per un certo verso calda e primitiva, ogni volta che mi ritorna in mente, mi riscalda il cuore.

Benito Colonna