FRAMMENTI DI STORIA

Il socio Edmondo Semprini, classe 1923, già ferroviere alle Officine Grandi Riparazioni di via Tripoli, ci ricorda episodi della sua vita durante gli eventi bellici del secondo conflitto mondiale. Anni contrassegnati da privazioni, dolori, paura e sofferenze indicibili. Memorie raccolte e curate dal signor Daniele Celli.

Io sono nato nella casa del nonno paterno, nei pressi dell'incrocio tra la via Emilia e la strada di ingresso del cimitero di Rimini. Mio nonno, deceduto nel 1932, era stato un dipendente delle ferrovie, casellante del posto n. 108, il passaggio a livello sulla Romea, la strada per Ravenna, distante appena qualche centinaio di metri da casa sua. Di fronte a noi, lato cimitero, abitava il contadino Razen. Nel 1944 la mia famiglia risiedeva a Rimini in via Abruzzi n. 15, proprio di fronte all'incrocio con la Via San Gaudenzo. Questa era la composizione della mia famiglia: il babbo Giovanni 1901 sposato con Mulazzani Maria 1904, i figli Edmondo 1923, Mario 1928, Flavio 1933, Marco 1938.

All'età di diciannove anni, il 18 maggio 1942 sono stato assunto in ferrovia come operaio aggiustatore, la data la ricordo bene perché era il compleanno di mio babbo. La mia paga era di 650 Lire al mese. Anche mio babbo e due suoi fratelli lavoravano nelle officine ferroviarie di Viale Tripoli. Un personaggio divenuto poi famoso, Liliano Faenza, lavorava nella stanza di fianco alla mia.

Il giorno 1 novembre 1943 mi trovavo presso le officine ferroviarie di Viale Tripoli in quanto in quel periodo avevamo molto lavoro da svolgere alle locomotive e in ognuno dei tre turni di lavoro, compreso quello notturno, erano impiegati circa quattrocento operai. Quel giorno le bombe erano cadute per la maggior parte in mare e nella zona residenziale di Marina Centro. Se colpivano le officine facevano una strage. Anche in occasione del secondo bombardamento mi trovavo al lavoro e anche quella volta, per fortuna, non ci colpirono.

Il 28 dicembre 1944 l'allarme aereo suonò di prima mattinata, questa volta però noi operai scappammo via tutti. Io a piedi, tornai a casa mia. La giornata era molto luminosa. Verso mezzogiorno, si iniziò a sentire in lontananza il cupo ronzio dei bombardieri; per fare un rumore così, doveva essere una formazione molto grossa, così io e i miei due fratelli Mario e Flavio, ci allontanammo subito dalla città. Arrivati nei pressi del poligono di tiro di Via Montescudo, ci mettemmo al riparo dietro all'ultimo muro, quello lato Torrente Ausa, perché quel giorno faceva freddo.

Osservando il cielo si potevano vedere i caccia di scorta, quelli a due code (P 38), che sorvolavano la zona. Il rombo degli aerei si faceva sempre più forte. Stavano arrivando proprio su di noi. Decidemmo di spostarci seguendo un grosso fossato, detto e foss ad Fortuna, che correva parallelo al poligono di tiro, sul lato monte. Lì vedemmo alcuni ferrovieri tedeschi che si erano messi al riparo nel fosso. Ci fecero segno di buttarci a terra ma noi proseguimmo la corsa in direzione dell'alveo dell'Ausa ormai prossimo.

Ad un tratto iniziano a scoppiare le bombe, le prime in direzione di Covignano, poi sempre più vicine. Una ci scoppiò a nemmeno una ventina di metri. Io e Flavio facemmo in tempo a gettarci a terra, Mario invece fu sbalzato dallo spostamento d'aria nel canneto lungo la riva del torrente. Ci rialzammo togliendoci la terra che ci era piovuta addosso. Il cratere che aveva scavato l'ordigno era enorme, molto più grosso di quelli che solitamente si vedevano.

Fortunatamente eravamo tutti e tre illesi, un vero miracolo, poco lontano invece sentii qualcuno che si lamentava, doveva essere ferito, ma non andammo a vedere, avevamo troppa paura che potessero arrivarci addosso altre bombe. Così ci mettemmo a correre in direzione della Gaiofana. In prossimità di Neri, lungo la Via Montescudo, incontro il mio capo reparto, Micheletto, un personaggio simile a Lino Banfi, che mi diede un passaggio sulla sua bicicletta fino alla scuola di Santa Maria in Cerreto.

Qui trovai mio babbo con mio fratello minore Marco, anche loro in bicicletta. Non sentendomi ancora al sicuro, dopo quello che avevo provato poco prima, per maggior sicurezza proseguii fino a Ospedaletto. I miei tre fratelli, il babbo e Micheletto invece rimasero. A Ospedaletto vidi arrivare i primi feriti trasportati su una motocarrozzella. Appena si calmarono le acque ci riunimmo, però mancava la mamma, nessuno sapeva dire dove si trovasse. Il motivo perché non fosse con noi, non me lo ricordo. Ci dividemmo per andare a cercarla. La trovai in serata, era a casa nostra e tra le lacrime stava mangiando un pezzo di pane al lume di una candela.

Quel bombardamento ci fece prendere la decisione di lasciare Rimini, era troppo rischioso rimanere in città. Raccogliemmo solo poche cose e, come prima tappa, andammo da un lontano parente di mia nonna, parroco a Santa Maria in Cerreto, che ci trovò una sistemazione presso la casa colonica del contadino Crusein, mi sembra che anche lui faceva Semprini come me.

Qui rimanemmo alloggiati per un po' di tempo. Noi uomini dovevamo andare a lavorare a Rimini e non ci potevamo allontanare troppo dalla città. Mio fratello Mario, intanto si trasferì a Valliano presso la famiglia Urbinati di cui era amico. Attraverso loro riuscimmo a trovare una stanza in affitto da un contadino, Vincenzein mi sembra si chiamasse, abitante a Casiccio, un ghetto di case tra Croce e Monte Colombo, sul versante del monte che guarda verso Valliano.

Fine prima parte

Edmondo Semprini