PROVVISTE ALIMENTARI

Il socio Virginio Cupioli (Tonino), classe 1926, ricorda in questo scritto aspetti di vita familiare della sua giovinezza. Lo stesso è autore di un libro dal titolo: L'albero della vita.

Alla fine di ogni estate era consuetudine fare una provvista di grano, olio, fagioli e farina di mais, per sopperire alle eventuali carestie invernali, data l'insicurezza del lavoro. Il grano a sacchetti di 30 chili circa per volta, veniva portato in bicicletta a macinare in un vecchio mulino scomparso nel dopoguerra, sito all'incrocio di via Flaminia e via Ponterotto.

Giornalmente la madre faceva la piada impastando farina sul tagliere, cuocendola nella rola (camino) sul testo riscaldato da strame e arbusti, all'uso degli abitanti della Zinganina (frazione della città dove risiedeva). Usava farina di grano setacciata, di provenienza locale mista a piccole quantità di veccia, orzo, segala, tutte impurità esistenti nel grano che di fatto la rendevano alimentarmente più completa e con meno vigoria.

Le piade piuttosto piccole e sottili, durante la cottura venivano avvolte dalle fiammate che cuocevano anche la parte superiore, rendendola morbida e fragrante. Bastava qualche girata per ottenere la giusta cottura; mangiate calde erano appetitose.

Ogni tanto, veniva fatto il pane che durava una quindicina di giorni. Era usanza recarsi al forno del Borgo San Giovanni, detto e furnaret che lo cuoceva. La pezzatura era di un chilo circa e veniva chiamato drugla, si manteneva tenero per una decina di giorni, poi veniva consumato anche secco, specialmente nel caffelatte.

A novembre si aggiungevano alla riserva olio di oliva, formaggi pecorini fatti artigianalmente e a gennaio gli insaccati del maiale fra cui il lardo, molto apprezzato se di spessore alto, era usato giornalmente per fare il soffritto; la goletta, la pancetta e i prosciutti soggetti a un breve periodo di stagionatura. I conigli, le galline e le uova, erano scorte fresche e disponibili.

Durante il periodo dell'uva matura, con la farina di granoturco veniva preparata la meca. Si impastava la farina, si schiacciava leggermente, si inseriva all'interno dell'uva novella con buccia sottile, si richiudeva e si cuoceva al forno. La pezzatura era grande come una drugla, all'interno l'impasto si irrorava di sapore di uva, molto gradito specialmente se mangiato fresco. Era un dolce grezzo, probabilmente di tradizione post medioevale, che a suo tempo è servito a sfamare le povere genti. Tuttora, qualche cultore dei sapori antichi in qualche borgata lo prepara durante la stagione della vendemmia.

Virginio Cupioli