ORIGINE E MORTE DI UNA SIRENA

Il socio Vinicio Vergoni, classe 1926, ritorna con i ricordi a quando, fine anni quaranta, i compagni di Viserba inseguirono con determinazione il progetto, poi coronato da successo, della realizzazione di una Casa del Popolo.

Non era facile costruire una casa del popolo. Era necessario trovare i soldi e mettere in piedi una cooperativa. Per mesi vagammo il sabato sera fra Viserba e Viserbella. Un compagno mezzadro offriva la stalla per riunirci. Passavamo per i campi in fila indiana, al chiarore lunare sembravamo fantasmi. Si seguiva un percorso appena segnato fra i filari di viti e alberi da frutta. Poco prima di arrivare si incrociava una stradina terrosa poco più larga di un sentiero. La stalla era grande, c'erano una decine di bestie. Era calda. Le sedie di paglia sgangherate non bastavano per tutti.

Le donne si premuravano di portare di sotto quelle della cucina. Un lume a petrolio era appeso a una trave e cigolava dondolando per uno spiffero che arrivava chissà da dove. C'era il colore dell'associazione segreta. Iniziammo un'ampia sottoscrizione di azioni fra gli oltre trecento iscritti e anche fra i non iscritti che ci vedevano per il verso giusto. Raggiungemmo una cifra notevole con l'impegno di decine di compagni di offrire ore di lavoro il sabato pomeriggio e la domenica mattina. Un grande risultato, tuttavia si poneva un altro problema, trovare un lotto.

Nella ricerca, ci accorgemmo che appena il proprietario aveva sentore che si voleva costruire un circolo bolscevico ricusava oppure alzava il prezzo fuori misura. Trovammo il lotto in via Puccini. Era ampio e in una buona posizione. Toccò a me trattare perché conoscevo il proprietario. Gli raccontai che avevamo costituito una cooperativa di mosconai, proprietari anche di piccoli fuoribordo da usare sulla spiaggia e volevamo costruire un capannone. Mi chiese cinque milioni. Combinai per quattro e sei.

Sempre in contatto con Virgilio il segretario e Silvano Doghieri, firmai il compromesso per persona o Ente da nominare. Quando si seppe che avremmo costruito la Casa il dottor Gorra, che aveva una villa vicino, mi cercò. Ci trovammo per caso nell'edicola di Eugenia, mi disse: - Se volete vendere vi do un milione in più -. Non ci voleva proprio vicino. Gli feci un sorriso amaro e risposi per togliergli ogni speranza: - Mi dispiace, abbiamo già il progetto in mano -. Non era vero!

Nella cucina grande di un compagno di Viserba monte, di cui non ricordo il nome, ci radunammo per costituire la cooperativa. Eravamo in undici: Chilein, Mangiantin, Ottaviani, i due fratelli Vici, Barnes e gli altri. Una sfilza di compagni con le mani callose e i segni della fatica impressi nelle rughe sbiancate e profonde della fronte e nelle sciabolate che solcavano i loro visi abbronzati. L'unico signorino ero io.

Compatangelo, il notaio, ci aveva edotti sulle funzione della cooperazione, come si costituiva e la regolamentazione se si scioglieva. Aveva portato con se una segretaria che sembrava trovarsi a disagio a svolgere il suo lavoro in quel luogo, a fianco alla rola e di fronte ai rami. In un angolo discreto la moglie del compagno lavorava con i ferri a una sciarpa piena di colori. Appoggiata alle sue gambe una bambina dagli occhi grandi e sorpresi accarezzava leggera un gatto rosso che teneva sulla faldata. Il pavimento era di mattoni, le sedie di paglia, con schienali ritti e scomodi.

La segretaria, bella, elegante, giovane, piena di bracciali e di anelli d'oro attirava gli sguardi. Aprì la borsa di pelle e sedendosi guardò con insistenza la paglia slabbrata. Un altro chiamava e scriveva con una grossa stilografica nera il nome, il cognome, la data di nascita, la residenza, il lavoro. Una sequela di mezzadri, coloni, manovali. Non alzava mai la testa, non ci guardava in viso, non ci vedeva. Toccò a me, alla richiesta della professione, risposi benestante. I nostri occhi si incrociarono, aveva gli occhi luminosi ambrati, alcuni compagni risero, e io dovetti spiegare che ero giovane, guadagnavo bene, avevo la topolino, in casa non avevano bisogno: era un bene stare. E sull'atto notarile rimase benestante.

Tenevo la contabilità. Ogni quattro ore era una azione. Il materiale ci giungeva dalla ditta S.A.M.E. dove Silvano Doghieri era dirigente. Lo pagammo ai prezzi di costo più una piccola quota per il trasporto. La Casa crebbe d'incanto nel giro di tre mesi lavorando solo il sabato pomeriggio e la domenica mattina. Quando il sole cominciò a tramontare sul tardi, anche un paio d'ore fuori orario. C'era entusiasmo e sicurezza.

Una domenica mattina mi presentai vestito a tutto punto. Camicia azzurra e fazzoletto blu a pois attorno al collo. Barnes mi chiese: tc'ì stè a la messa?. Volli dimostrare che avevo abbastanza forza per lavorare come gli altri. Barnes mi riempì una carriola di mattoni. Lo fece apposta. Mi avvicinai alle stanghe sputai sul palmo delle mani e provai a spingere. Ma un braccio non tenne e dopo un paio di metri il carico si rovesciò. Tutti risero con soddisfazione. Da quel giorno arrivavo con un quaderno sgualcito per segnare solo le ore.

La Sirenetta divenne un locale famoso. Faceva proletariamente concorrenza alla Villa dei Pini e al Garden. Durò, fra le alterne vicende, circa mezzo secolo. Ora non c'è più. I nuovi compagni l'hanno venduta.

Glossario:
Faldata = grembo
Tc'ì sté a la messa = sei stato alla messa

Vinicio Vergoni