ORIGINE E MORTE DI UNA SIRENA

Il socio Vinicio Vergoni, classe 1926, inseguendo il filo dei ricordi ritorna alla fine degli anni '40 quando a Viserba i compagni, non appena passato il fronte di guerra, si erano insediati con le loro organizzazioni politiche nella ex Casa del Fascio. Istallatosi un governo avverso ne venivano scacciati. Il titolo del racconto può apparire fuori luogo ma questo è solo il primo episodio, nel successivo se ne capirà la ragione.

Erano le quattro e mezza quando Mangiantin, arrampicandosi sulle spalle di un compagno, guardò fuori dall'alto finestrone e gridò: Stanno arrivando!. Era un mattino scuro e ventoso, la porta cigolava e dentro lo stanzone, che era stato una palestra, dalla sera prima una ventina di compagni si erano rinchiusi a presidiare la Casa del Popolo, ex Casa del Fascio in quel di Viserba.

Insonnoliti e stanchi per la notte passata a chiacchierare su Scelba, sul lodo De Gasperi e sul che fare per avere una Casa tutta nostra, ci radunammo al centro e decidemmo di accendere tutte le luci e di cantare. Volevamo che la gente sapesse. Bandiera rossa, Bella ciao, l'Internazionale e Santa Sofia paese dell'amore, erano stati gli inni quasi urlati che per due ore risuonarono sulle case vicine alla piccola pescheria del paese. Stonati e rauchi, eravamo anche turbati per ciò che poteva succedere.

Ma fuori era silenzio. Si sentiva il frusciare delle foglie e il gorgoglio dell'acqua che usciva da una fontanella lasciata aperta presso i banchi di pietra. Il tempo ci parve interminabile. Erano le sei passate da qualche minuto quando una voce metallica ci intimò: Aprite subito la porta e uscite uno alla volta con le mani alzate. Noi ricominciammo a cantare più forte. Per tre volte risuonarono minacciose le stesse parole e per tre volte ricominciammo a cantare, poi un colpo secco, quasi un colpo simultaneo a un fulmine, entrarono con i mitra spianati.

Ci spinsero contro la parete con il calcio dell'arma. Con le mani sul capo ci fecero uscire uno dietro l'altro. Vollero sapere le generalità e il lavoro che facevamo. Quando chiesero a Checco che lavoro faceva, lui rispose: Rivoluzionario di professione. Si prese un calcio nel culo. Ne nacque un tafferuglio. Intervenne il Comandante che aveva l'ordine di non forzare la situazione. Ci spinsero sulla pescheria con l'intimazione dell'arresto, ma ci lasciarono andare in fila per due, con la bandiera rossa, falce e martello e stella, arrotolata.

Su un cumulo di macerie piantammo la bandiera a simbolo della nostra volontà di avere una sede e cantammo ancora. Verso il mare il cielo schiariva. Le prime donne, con le cassette del pesce, stavano arrivando.

Vinicio Vergoni
(continua)