Il socio Luciano Casalboni, nel ricordare il padre Leo ex partigiano e ferroviere, racconta di un libro che gli era particolarmente caro.
Tra i libri di Leo ve ne era uno a cui teneva particolarmente, si intitolava Zvanì di Tito Lori, che riporta un episodio realmente accaduto. La storia verte su un quindicenne nato a san Mauro Pascoli al quale i genitori misero nome Giovanni. In quella comunità vide i natali Giovanni Pascoli, vanto dei concittadini che in suo onore eressero una statua situata in mezzo alla piazza.
Così, pure il nostro Giovanni venne affettuosamente chiamato Zvanì. L'importanza di questo nomignolo gli condizionò l'esistenza. Forse per una reazione inconscia a chi gli rinfacciava di non avere la stoffa del grande Zvanì, crebbe ribelle, dispettoso e irriverente. Parenti e concittadini non mancarono di redarguirlo e apostrofarlo ogni volta che capitava l'occasione, al punto da farlo sentire inutile, un peso per la comunità.
Durante la seconda guerra mondiale San Mauro era occupata dai tedeschi. Durante un attentato partigiano rimase ucciso un graduato tedesco e per rappresaglia furono incarcerati dieci cittadini che sarebbero stati fucilati se nel giro di quarantotto ore non si fosse costituito il colpevole. Quest'ultimo, che nello scontro a fuoco era rimasto gravemente ferito, morì di lì a poco.
Casualmente nel percorre la strada Zvanì incappò nel fucile abbandonato dal partigiano e lo nascose in un boschetto. Il morto non poteva costituirsi e ne fra i cittadini ne fra i partigiani saltò fuori un volontario che si costituisse o che si assumesse le responsabilità dell'attentato. Si fece avanti il parroco che pur di salvare le sue pecorelle e le rispettive famiglie si accusò dell'attentato, ma non fu creduto. I tedeschi volevano le prove e l'arma da cui era partito il colpo.
Se i famigliari del partigiano morto ne avessero consegnate le spoglie non sarebbe finita lì, sarebbero stati liberati i dieci ostaggi ma la rappresaglia li avrebbe colpiti, distrutti i campi coltivati, depredati tutti gli averi, confiscati gli animali e gli attrezzi, bruciate e rase al suolo le abitazioni, mandando così in rovina più di quaranta persone.
Zvanì fece allora quello che agli occhi del paese, lo rese grande come il suo omonimo. Improvvisandosi eroe e riscattandosi andò a prendere il fucile che aveva nascosto e si consegnò ai tedeschi. Mentre la scarica lo abbatteva come un virgulto di biada reciso dal pennato, Zvanì sorrideva guardando il monumento del grande Zvanì.
Credo che a Leo di tutta questa storia, più complessa del riassunto che ne ho fatto, colpissero le ultime cinque righe. Non cercate la sua tomba nel cimitero di san Mauro: non la trovereste. Perché miosotide, genziana e fiordalisi vi hanno ormai intrecciato il loro magico richiamo. E gli uomini preferiscono non ricordare.
Luciano Casalboni