Il socio Luciano Casalboni prosegue la narrazione delle memorie del padre Leo, incentrate sulle sue vicissitudini durante il periodo bellico. Così dopo il dissolvimento dell'esercito italiano, all'indomani del fatidico 8 settembre, trovò rifugio, perché disertore, presso la casa colonica del suocero Cesare nel quale, per ironia della sorte, vi si era installato anche un comando Tedesco, rendendo tale sito esposto alle incursioni aree alleate. Proprio in una di queste trovò la morte il suocero.
I tedeschi lasciarono il podere per andare ad attestarsi più a nord, fuori dalla zona presa di mira dai bombardieri, mentre la famiglia, sepolto Cesare, decise di lasciare il casolare e trovare rifugio in città da dove potevano di tanto in tanto raggiungere il podere per espletare le mansioni necessarie per la cura degli animali e perché non andasse in malora il raccolto. Dovettero separarsi anche da Leo, il quale non poteva rientrare in città perché ricercato.
L'unica decisione plausibile, per non staccarsi dalla sua terra e dalla sua gente, era quella di raggiungere i partigiani sfollati a San Marino. Nella terra della libertà, ancora stato neutrale, non si ostacolava la presenza di rifugiati, ma si collaborava con l'autorità fascista per la cattura di ricercati e partigiani, a causa delle pressioni tedesche e repubblichine. Anche Zeno, il cognato, voleva seguire Leo, ma non poteva perché doveva accudire la famiglia. La Ceda, la suocera, era rimasta vedova con tre ragazze e un fanciullo ed erano sfollati. Toccava a lui prendere il posto di Cesare. Aveva fatto la promessa che non li avrebbe abbandonati, promessa che diventò una missione e che condizionò il suo futuro.
Il sacrificio dell'esilio lo portava a una distanza proibitiva, circa 25 chilometri, dalla Nives la quale, quando poteva, li percorreva a piedi per portare viveri, biancheria e notizie. La strada sterrata è pericolosa, più il carico minarono il suo fisico e rimase immobilizzata da un'ernia del disco per cui dovette essere operata d'urgenza proprio mentre gli alleati avevano intensificato i bombardamenti. Fu trasportata in ospedale sopra un carretto della verdura, mentre era sotto i ferri iniziò il bombardamento.
Gli ospedali, per essere risparmiati, erano ricoperti da lenzuola bianche, ma si sa che le bombe non sono intelligenti e in quel preciso momento un'ala dell'ospedale fu abbattuta. L'operazione la subì da sveglia e il dolore del bisturi, accompagnato dal boato delle bombe, aveva il sapore e l'orrore della tortura. I medici cercarono di sbrigarsi, la cucirono e la medicarono in tutta fretta per poi caricarla sul carretto perché l'ospedale non era più sicuro. L'ernia era stata rimossa ma l'operazione lasciò strascichi di invalidità che resero complicate le quattro gravidanze e la possibilità di fare sforzi nel tempo a venire.
Luciano Casalboni