Ceci era innamorato del mare. Rimaneva incantato a guardarlo, gli piaceva quando era limpido, cristallino e l'aquadela la sfileva in brench sulle crespe allineate della sabbia, sotto la riva, e così, com'era quel mattino: livido, tumultuoso, bavoso.
Nella luce tremula il cielo grigio e cupo si uniformava al colore del mare e sembrava che l'un l'altro si toccassero in un orizzonte indistinto e più vicino. Il nevischio si stava infittendo. Ceci diede un ultimo sguardo alla Vispa Teresa; fermò con forza un bandolo del telone che svolazzava e pensò di ritornare a casa al caldo. Non era il caso di prendere il largo. Così, per gioco, ritornando rimetteva la pianta dello stivale sulle orme lasciate prima, nel venire. La sottile crosta ghiacciata cricchiava e la risacca verde e spumosa ne scandiva i passi.
Vi era un'atmosfera surreale. Tutto intorno era silenzio; solo il vento freddo, la neve, e il riso roco dei gabbiani che danzavano bassi picchiando sull'onda lunga. Pensava alla stagione del sole, quando le ragazze scendevano sulla sabbia calda e dorata e si bagnavano, vicino alla riva, con il costume che lasciava nude le gambe e le braccia..., pensava agli spuntacul (specie di infiorescenza spinosa di pianta delle cactacee, che con il vento ruzzolavano) e alle coppiette che si nascondevano fra le dune a cui pizzicavano il sedere.
Così vagheggiava la mente quando si scosse si fermò, tese l'orecchio: un rumore insolito, come un ciabattar di latta, uno sferragliare violento e ansimante; poi, più nulla. Si girò verso il mare e gli parve di veder sbucare, come per incanto, dal brumoso cielo, un aeroplano che stesse calando sulle acque agitate. Forse un miraggio, uno scherzo della mia fantasia, pensò eppure aveva sentito il rumore, lo sferragliare.
Ritornò rapido sulla battigia. Sì, c'era: a trenta metri dalla riva. Ora vedeva, chiaramente, un uomo che aperto il tettuccio stava in piedi e guardava verso il basso. Intanto l'aeroplano lentamente s'inclinava e un'ala già lambiva il mare. Sballottato dal frangersi forte delle onde, l'aeroplano variava inclinazione e assetto. Non c'era tempo da perdere: le ruote erano già sott'acqua.
Ceci corse in aiuto. Il pilota aveva una tuta con il copricapo di tela e grandi occhiali; era alto e grosso con un pizzetto nero. Ceci, con l'acqua gelida un palmo sopra il ginocchio, pensò di caricarsi quello sulle spalle. Pesante. A due passi dalla riva volle scendere, l'acqua gli arrivava agli stinchi e si bagnò comunque. Non furono scambiate parole. Ceci lo accompagnò alla vicina pensione Tonini di Miramare e il signore gli disse: - grazie.
Ceci pensò a quell'aeroplano sballottato in mare; corse alla stalla e assieme ai fratelli, Vittorio e Attilio, tornò alla riva. Con Ro e Bunì e con mestiere adoperando le funi, portarono a secco il monoposto dall'ala pendente. Un piccolo gruppo si era radunato a guardare.
Ceci ritornò alla pensione, ma già c'era un insolito movimento. Alcuni carabinieri non facevano avvicinare; poi giunsero due macchine scure con tante persone che dovevano essere importanti perché salutavano con il braccio alzato.
Si seppe quasi subito che l'uomo salvato era Italo Balbo: il quadrunviro. Per Ceci la parola quadrunviro non diceva nulla; pensò che avesse una magnifica carrozza tirata da quattro cavalli. Ma non era così. L'Italo era il fascista più potente dell'alta Romagna e aveva partecipato alla marcia su Roma al comando della 4a legione.
Ceci era fuori dalla politica; il suo era un mondo umile, si guadagnava la pagnotta chino sulla terra o legato me minc (piccolo argano) della Vispa Teresa e un pensiero lo assillò per lungo tempo: - chissà se aveva fatto bene a tirarlo fuori dai guai?
Al mattino accesero dei bracieri sotto il motore e, dopo molti tentativi, le eliche ricominciarono a frullare.
Vi.Ve.