Il socio Casalboni Luciano, sulla base delle memorie del padre Leo, racconta un drammatico episodio in cui rimase coinvolto come combattente nella guerra di liberazione.
La guerra era nel vivo con tutte le sue barbarie, si era alla resa dei conti. Il giovane Leo doveva combattere per sconfiggere il nemico e ritornare a una vita normale e libera. Per far sì che al più presto tutto il male cessasse. Bisognava essere disposti a uccidere perché si smettesse di uccidere, bisognava essere disposti a morire perché nessun'altro dovesse morire.
Le formazioni partigiane erano nella necessità di doversi armare, rimediare armi con qualsiasi stratagemma. Rubarle, tendere imboscate, a questo compito erano assegnati due giovani. Da giorni tenevano sotto controllo una strada e avevano memorizzato i tempi in cui passava una staffetta motorizzata tedesca. Decisero di tendere l'imboscata dietro una curva, approfittando di un mucchio di ghiaia e degli attrezzi da spalare per fingere di essere due stradini sul lavoro.
Le staffette motorizzate giravano con il mitragliatore a tracolla appoggiato sul serbatoio e pronto a sparare anche in movimento. Quando l'autista tedesco svoltò la curva e si trovò i due spalatori davanti, frenò bruscamente. Nell'arrestare il motore le mani erano impegnate nelle azioni di frizione, frenata e cambio marcia, inoltre a motore fermo doveva appoggiare i piedi per tenerlo in equilibrio, pertanto non poteva sparare.
I due gli furono addosso, Leo gli strappò il mitragliatore e puntandoglielo gli intimarono di mollare la borsa dei documenti, la pistola e le munizioni. Con loro sorpresa il tedesco non sembrava spaventato, anzi sorridendo si mise a parlare in italiano, a dire loro che la guerra è una brutta cosa, che lui era un padre e aveva due figli della loro età, ecc., mentre parlava scese dal motore che mise sul cavalletto, si sfilò la borsa dei documenti che lasciò scivolare a terra e mise mano alla fondina.
I due gli dissero di fermarsi, di mettere le mani dietro la testa, gli avrebbero tolto la pistola. Il tedesco a quel punto disse che era meglio per tutti se lo lasciavano andare, non li avrebbe denunciati in cambio della libertà. Dovevano capire che se non fosse tornato sarebbe scattata la retata, e se poi lo avessero ucciso sarebbe scattata la rappresaglia.
Il comando tedesco, per evitare uccisioni dei propri soldati, aveva promulgato l'ordine di fucilare dieci italiani per ogni tedesco trovato ucciso se non si fosse trovato il colpevole. Forse il tedesco sperava di convincerli, sperando nella sua astuzia, forse aveva paura, di fatto impugnò la pistola e cercò di sparare, ma non aveva fatto i conti con l'istinto e la rapidità di Leo, il quale lasciò partire una raffica dallo stesso mitragliatore. Il tedesco non ebbe scampo.
Non c'è orgoglio nell'uccidere un uomo, anche se nemico, neppure per difendersi. Possono inorgoglire chi non ha rispetto, chi non ha sentimenti. Chi è costretto a uccidere senza volerlo sarà sempre roso dal rimorso, terrà per sè quel dramma e non lo racconterà se non per liberarsi di quel suo disumano gesto.
Per troppo tempo Leo lo ha tenuto dentro di sè. Solo in tarda età, già minato dal morbo di Parkison, me ne aveva parlato. Lui ateo non si sarebbe mai rivolto a un prete per confessare, ma a un figlio sì. Un figlio può capire, perdonare e prendersi questo fardello.
Per quel gesto furono arrestati due giovani del posto. Fortunatamente intervennero a loro discolpa autorità laiche e religiose che convinsero i tedeschi a liberarli perché gli autori erano stati due ignoti partigiani venuti da fuori.
Luciano Casalboni