FRAMMENTI

Questi amarcord devono essere frammenti di vita vissuta, qui, da ferrovieri, frequentatori già giunti agli anni ...anta, ...anta! Ricordi, impressioni, sensazioni, nostalgie come flash che possano far rivivere particolari inediti da aggiungere e completare il magnifico libro di storia del Dopolavoro.

Dopolavoro 2

Era un piacere, una gioiosa avventura andare al dopolavoro con il babbo. Mi mettevo a guardare le partite di bocce e, naturalmente, in silenzio tifavo per lui. Era un puntatore, quello cioé capace di avvicinare la sua boccia al pallino, poi c'erano i bocciatori, quelli che facevano volare la boccia che si schiantava su quella che volevano togliere dal punto. Uno di questi era un macchinista, si chiamava Neri: alto, smilzo, lo ricordo vestito con una camicia del colore del suo nome, senza alcun riferimento politico, tutt'altro, come seppi molto più tardi. Era bravissimo, fulminava la boccia nemica in modo tale che la sua rimaneva sul posto della prima come inchiodata mentre l'altra schizzava lontano.

Mi ricordo di un ferroviere che si chiamava Bronzetti e di uno che si chiamava Pennesi, molto bravi ed erano entrambi contesi per averli come compagni. Il babbo prese a portarmi spesso e là mi chiamavano Vergoncino. Ero servizievole, quando c'era da riportare le bocce al rango dopo una tirata ero sempre il primo. Mi ero guadagnato le simpatie dei giocatori di bocce. Alle volte mi offrivano qualcosa ma io non accettavo e solo sotto insistenza guardavo il babbo che se mi faceva un cenno di assenso con il capo, allora approfittavo. Lunghe erano le discussioni su un punto messo male o una bocciata sbilenca, tutto però finiva in una bicchierata di vino con quella bottiglia preparata su quegli instabili tavolini, tovagliati di bianco.

Mi piaceva molto anche il tennis. Giovani e anche qualche ragazza immancabilmente vestiti di bianco menavano colpi fortissimi con la racchetta ad una palla piuttosto piccola ed impercettibilmente lanosa. I colpi risuonavano fino ai giochi di bocce. Si entrava nel campo di gioco da una porticina retata e, poiché questa era rimasta appena socchiusa, la prima volta, di soppiatto, mi addossai alla rete dalla parte interna a guardare. Nessuno mi disse niente e così rimasi lì meravigliato e sognante il giorno che con i calzoni corti e la maglietta bianca sarei riuscito ad imitare quei campioni. Non ricordo come cominciò; forse per la gentilezza cominciai a raccogliere le palle perse e porgerle ai giocatori. E fu redditizio, perché una sera due giovani mi regalarono un ventino a testa. Non li volevo, ma loro insistettero. «ti comprerai un gelato», dissero. Accettai e corsi da mio padre che mi disse: «ti sei fatto la giornata...» e poi dopo un po' «ricordati del salvadanaio».

Avevo infatti in casa un vecchio regalo di una befana di qualche anno prima: un salvadanaio di terracotta, quello con il pancione e una bocca tagliata e affamata. E lì finirono i due ventini, ed in seguito altri soldini, una volta addirittura una lira, un vero tesoro. Ma poi un giorno imparai che inserendo una lama di coltello nella fessura potevo far scorrere quegli spiccioli sino alle mie mani; diventavo grande. Peccato.

Il babbo mi portava spesso in bicicletta, mi accomodavo, si fa per dire, sul cannone e tenevo le mani al centro, sul manubrio. Era una Legnano nera e pesante ma poiché era tenuta molto bene, scivolava sulle strade asfaltate silenziosa ed affidabile. Imparai, pericolosamente andando con la gamba destra che passava sotto il cannone, le mani sul manubrio e una guida sbilenca. Ma questo non c'entra.

Volevo invece ricordare, di quel giorno che giungemmo in bici al Dopolavoro nello stesso momento che arrivavano due automobili; un caso più unico che raro per quei tempi. Una era una Balilla, lo ricordo bene, l'altra più grande nera, di una marca che non conoscevo. Scesero alcuni uomini tutti vestiti in borghese. Uno della Balilla fece come il cenno di voler aprire la portiera della macchina più grande ma due persone scesero da sole, lasciando l'autista, con il classico berretto in macchina. Il gruppetto cominciò a girare fra la curiosità dei ferrovieri presenti. Si avviarono al campo da tennis, poi a quello da calcio, e fecero poi visita al complesso centrale che era apparso subito come il più importante. Infatti era il locale dove vi era il bar, la sala dei biliardi, la sala del gioco alle carte e la biblioteca.

Colui che era apparso, da subito, il più autorevole, salutò con un cenno del capo i meravigliati giocatori di bocce. Naturalmente, come il mio solito, mi ero intrufolato e ricordo che le parole dette fra loro erano di circostanza: «Molto bene, sì, organizzato come si deve, eccetera». Consumarono e se ne andarono, lì seppi da un signore piuttosto alto che si chiamava Faini che uno di quelli era il segretario del Fascio riminese, ma che l'altro, il più importante, non sapeva chi fosse.

Ricordo tuttavia, che il barista di nome Emilio, un tipo calvo, smilzo e alto, almeno da dietro Il bancone disse: «i na fat gnenca una mosa, per paghè e in ma det gnenca grazie». Mi parve proprio scocciato di quella visita. Seguii il gruppetto che ritornò alle macchine e se ne andò. La Balilla era targata FO, la più grossa CD. Io facevo la quarta e conoscevo tutte le targhe delle allora novantadue province italiane, fui sorpreso di quella targa CD che non ritrovavo nella memoria. Mi rimase impressa. Quando ritornai a scuola, chiesi al mio maestro, il bravo maestro Bacchini, di risolvermi l'arcano. Lui mi spiegò che la targa CD significava Corpo Diplomatico usata specialmente dalle ambasciate e che non aveva niente a che fare con le targhe delle nostre province.

Glossario:
«i na fat gnenca una mosa, per paghè e in m'adet gnenca grazie»
«Non hanno fatto neanche il gesto di pagare, e non mi hanno detto neanche grazie»

Vi.Ve.
continua